Se ne parla poco. O almeno lo spazio dedicato al tema è quasi sempre marginale. L’attenzione al calo demografico è inversamente proporzionale ai suoi effetti negativi. E’ tuttavia arcinoto che il futuro del welfare del Paese dipenda strutturalmente dalla possibilità di invertire la curva della denatalità. L’Italia è il Paese europeo dove si nasce di meno. Ma il sostegno alla famiglia è assente o rapsodico. Certamente inadeguato alla necessità di programmare, di fare progetti di vita.
Le crisi producono sfiducia, da sempre. L’emergenza sanitaria da cui siamo stati travolti ha influito non poco sul sentimento del futuro di larga parte degli italiani. Come ricordava il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la pandemia “ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di nuove. Tutto ciò ha prodotto pesanti conseguenze sociali ed economiche”. Ha, inoltre, aggiunto che la crisi sanitaria “ha seminato un senso di smarrimento: pone in discussione prospettive di vita. Basti pensare alla previsione di un calo ulteriore delle nascite, spia dell’incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità”.
Se fosse vero che il Covid-19 ha gettato il Paese (il pianeta) in una condizione di guerra, potremmo sperare che l’uscita dalla crisi sia capace di invertire la rotta demografica. Dopo le guerre è sempre successo così. Ma questa guerra, la guerra al virus, non è come le altre. Rischia di lasciare segni negativi, anche dopo la conclusione (arriverà, prima o poi) dell’emergenza.
Non è difficile prevedere che venga consolidata la tendenza alla diminuzione delle nascite, che parallelamente al progressivo invecchiamento della popolazione rischia di gettare il Paese in una crisi strutturale di decrescita. Come ricorda Alessandro Rosina, uno dei più attenti osservatori delle dinamiche demografiche, “il margine su cui agire è il livello di fecondità, che attualmente è sui valori più bassi di sempre per le cittadine italiane (1,18 figli per donna). Grazie alla componente straniera si sale a 1,27, livello che però non ci consente di lasciare il fondo della classifica europea”. Sono i giovani che non vogliono avere figli. Continua Rosina: “I dati Istat mostrano che la riduzione della fecondità dal 2010 al 2019 è praticamente tutta da attribuire alla minore propensione ad avere figli degli under 35. I dati delle indagini dell’Osservatorio giovani, compresa quella più recente condotta ad ottobre 2020, evidenziano che se il numero desiderato di figli risulta mediamente vicino a due, in linea con gli altri paesi europei, il numero di figli che realisticamente si pensa di riuscire ad avere è sotto 1,5. In particolare circa il 43 percento pensa che non ne avrà nessuno o solo uno”.
Si è erroneamente pensato che il basso livello di lavoro femminile fosse collegato alla maternità. Ma non è vero, come ha scritto di recente Fabrizio Pagani. Nell’ultima legge di Bilancio si è finanziato l’assegno unico, ma servono politiche strutturali, E investimenti anche in cultura della famiglia e della genitorialità.
La rinuncia ad avere figli è “l’indicatore più sensibile delle difficoltà che i giovani incontrano in tutto il percorso formativo e professionale, assieme a una forte incertezza rispetto al proprio futuro” commenta Rosina. Ripartiamo almeno da questa consapevolezza, che la crisi delle nascite è la spia più chiara dell’incertezza sul futuro di una comunità.
Abbiamo bisogno dei denari del Recovery Plan, ma abbiamo bisogno anche che questi denari vengano investiti non solo in infrastrutture fisiche o digitali ma anche in “infrastrutture familiari”. Senza l’apporto delle reti familiari il Paese non avrebbe resistito a questa crisi. Dobbiamo ricostituire la forza delle famiglie, per ridare futuro al Paese.