Il labirinto delle pensioni – per evocare l’espressione di Onorato Castellino – è figlio della giungla in cui sono state codificate le norme legali e contrattuali del lavoro. E la busta paga è una plastica traduzione (incomprensibile) di questo accrocchio.
Lo ricordava qualche giorno fa Pietro Ichino per riportare a terra il dibattito lunare che si sta sviluppando sul salario minimo per legge. Senza una sana trasparenza della formazione delle buste paga a nulla varrebbero norme extracontrattuali, che finirebbero solo per restare competenza di quella classe di intermediari che in Italia sono fioriti a causa della “burocrazia del lavoro”.
Sono figlio di consulenti del lavoro, quindi non ho nulla contro la professione, ci mancherebbe. Ma resta l’anomalia italiana che richiede “interpreti” della norma, componenti di una casta (in verità più di una), costretta al ruolo di Azzeccagarbugli, destinata a interpretare circolari amministrative, invece di poter essere una risorsa a tutto tondo per le imprese. Sfido qualunque lavoratore dipendente – o uno dei tanti tipi di lavoratori parasubordinati – a saper leggere la propria busta paga. Tutti finiscono per andare a leggere il netto, senza aver nessuna cognizione di come quel netto si raccordi al lordo iniziale tra trattenute fiscali Irpef, addizionali, trattenute contributive, forme di retribuzione differita (la tredicesima per tutti, per alcuni la quattordicesima), accantonamento per il Tfr, minimo tabellare, superminimo, scatti di anzianità, gratifiche personali e collettive, etc.
Una sequela di voci e di percentuali che non ha l’uguale in nessun Paese europeo. E che nessuno in Italia – nemmeno tra i ferventi europeisti – sembra intenzionato a normalizzare. Come è accaduto per il blocco dei licenziamenti: un provvedimento che solo in Italia abbiamo avuto l’idea di confezionare contro il mercato e contro ogni esempio europeo. Così nella regolamentazione del lavoro continuiamo a svolgere i nostri barocchismi (continuo nella citazione di Ichino, uno che se ne intende) a scapito di Europa e trasparenza. Producendo oneri per i vari tipi di ispettorato del lavoro, contenzioso, e costi nell’amministrazione della giustizia.
In tutto ciò resiste una vocazione al mantenimento di caste sacerdotali che non si esauriscono nelle forme professionali che hanno colto l’opportunità apertasi con i necessari e opportuni spazi di consulenza. Per le imprese si tratta di dotarsi di consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati giuslavoristi, spesso ridotti a scudo del litigio quotidiano con la Pubblica Amministrazione. Ai lavoratori tocca un intermediario unico, il sindacato in tutte le sue forme organizzative: dalla rappresentanza aziendale a quella territoriale fino a quella nazionale di settore e confederale, ovviamente.
Nulla può accadere se non sotto la vigilanza del sindacato. Dall’assunzione di un apprendista alla formazione per la riqualificazione professionale. Che poi cambia da Regione a Regione, rendendo quindi un diritto fruibile in maniera differenziata nello stesso Paese. E nulla può essere utilizzabile direttamente dal lavoratore, in barba alla regola dell’uno vale uno e della disintermediazione come metodo di relazione sociale. Una forma di resistente paternalismo che considera i cittadini che lavorano dei soggetti da assistere, da guidare e da gestire in una giungla che viene poi riproposta ogni mese nella busta paga.
Marco Biagi prima di promuovere il suo testo di riforma (la legge 30 del 2003) aveva censito una quarantina di diverse forme contrattuali di lavoro subordinato. La flessibilità è un pregio solo quando viene razionalizzata e semplificata. Altrimenti è un attentato alla democrazia e un proseguimento della burocrazia con altri mezzi.
E’ giusto aver individuato nella burocrazia cattiva (c’è anche quella buona, anche se fa meno notizia) un nemico giurato, ma deve essere un obiettivo di tutti riconoscere ogni atteggiamento burocratico che si manifesta anche fuori dal perimetro della Pubblica Amministrazione. E combatterlo per assicurare trasparenza vera, non quella che ha fatto scrivere molti libri e che ha reso utili, inutili professori di diritto.
Fonte: Libero Economia