Le richieste dell’Ocse, oggi, sono percepite come meno “autorevoli” di quelle della Bce, dieci anni fa. Mario Draghi lo sa, non solo perché ha cambiato il ruolo, da mittente a destinatario della raccomandazione sulla riforma delle pensioni. Sa che può traccheggiare. Mentre ripartirà il tormentone sulle pensioni, il presidente del consiglio se ne terrà prudentemente in disparte, lasciandolo al marketing politico.
Quando con Trichet firmò la lettera del 5 agosto 2011, fu meno timido: scrisse che era “possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità”. Tradotto, oggi, potrebbe voler dire tornare alla Riforma Fornero, tout court, dopo la “vacanza” introdotta con “quota 100”. Lo chiedono autorevoli economisti. Lo suggerisce l’Ocse.
Il fallimento del provvedimento (quota 100) dovrebbe coinvolgere con un “mea culpa” buona parte della maggioranza del Governo Draghi. Non solo la Lega, che lo ha voluto, ma anche il M5S che lo ha sostenuto in quello scambio perverso di spreco di denaro pubblico che ha sommato pensioni anticipate e reddito di cittadinanza. Sussidi a tutti, ben prima della crisi Covid.
Oggi, come sempre sotto data, non si fa che riparlare di quota 100, come se il problema delle pensioni potesse essere slegato dal complessivo ridisegno del welfare del Paese. Come se potessimo parlare di pensioni – e dei costi generati nei conti pubblici – a prescindere dal peso e dal ruolo che avranno le risorse destinate al reddito di cittadinanza, agli ammortizzatori sociali, alle politiche attive per il lavoro. Tutto sarà impacchettato – è presumibile – nella legge di Bilancio, ma senza uno schema di riferimento unico. Eppure, tutto si tiene.
Intendiamoci, questa improvvisazione – complici l’incombente voto amministrativo di ottobre, e gli umori dell’opinione pubblica su un tema da sempre sensibile, come le pensioni – non è prerogativa di questa stagione politica. In una relazione del 2016 l’Ufficio Parlamentare di Bilancio notava che in soli cinque anni, con le prime sei “salvaguardie”, risultava dissipato più del 13% dei risparmi generati dalla Riforma Fornero (stimato in una ottantina di miliardi, nel 2011). Insomma, i tre anni di “quota 100” non possono essere indicati come gli unici danneggiatori della Riforma Fornero. Finiranno per costare meno del totale delle salvaguardie (nove) succedutesi dal 2012 al 2018.
Con tutto ciò ricordato è appena il caso di auspicare che il Governo sul tema si possa esprimere al suo massimo livello; mentre invece Draghi sembra aver concesso ai partiti, in piena crisi di credibilità, un colpevole “liberi tutti” sul tema.
Il leghista Claudio Durigon, liberato da impegni di Governo, assicura (o minaccia?) di non volersi occupare d’altro, se non del futuro di “quota 100”. L’uomo M5S al vertice dell’Inps, Pasquale Tridico, certifica che “la misura è stata utilizzata prevalentemente da uomini, con redditi medio-alti e con una incidenza percentuale maggiore nel settore pubblico”, cioè da coloro che meno hanno dimestichezza con la parola “bisogno”. E la gran parte dei partiti, compreso il titolare del Ministero del Lavoro, si nascondono dietro la solita evocazione del confronto con le parti sociali. Peccato che i sindacati ormai rappresentino più i pensionati – cioè coloro ai quali la Riforma Fornero non tocca – che i lavoratori attivi.
Avremmo preferito la convocazione di un gruppo di esperti – dall’ex ministro Fornero in giù – per formulare una proposta che sapesse guardare nella sua totalità il nuovo welfare che avanza. Un welfare fatto di un mix ancora troppo trascurato di previdenza pubblica e previdenza complementare, ma persino di un ormai irrinunciabile modello di integrazione tra previdenza e sanità (l’allungamento dell’età media di vita innalzerà i bisogni di servizi assistenziali alla persona, oltre quelli puramente reddituali) con buona pace di coloro che pretendono la separazione contabile di pensioni e assistenza nei bilanci Inps.
Fonte: Libero Economia