Milena Gabanelli parla di inganno. Romano Prodi preferisce dire che si tratta di “una ferita alla democrazia”. Per Sabino Cassese è un “piccolo tradimento al principio della rappresentanza”. Lilly Gruber pronuncia la parola “truffa”. Nelle fattispecie di reato potrebbe esserci l’“abuso della credulità popolare” o addirittura la “circonvenzione di incapace”. È più semplicemente il malcostume italiano – e pare proprio solo italiano (con pochissime eccezioni, in Francia e in Olanda) – di candidarsi alle elezioni europee solo per attirare voti ed elettori. Ci facciamo sempre riconoscere?
I nostri leader di partito – da Meloni a Tajani, da Calenda a Schlein – sono tutti capilista, ma nessuno di loro – lo hanno detto chiaramente – andrà a sedersi all’Europarlamento. C’è poi il paradosso della Lega, che sceglie come capolista un candidato – il generale Vannacci – che non è della Lega, e che anzi viene misconosciuto dai leader leghisti (a eccezione di Salvini che lo ha voluto). E c’è la scelta – triste e inopportuna – di Forza Italia, di esibire il simbolo con il nome del fondatore, morto ormai un anno fa.
Il solito caravanserraglio all’italiana. Il recinto del disordine politico e dell’ammiccamento elettorale, dove nessuno è mai quello che si rappresenta. Non a caso, ora che è iniziata la campagna elettorale in vista del voto dell’8 e del 9 giugno, sulle strade incominciano a comparire manifesti con slogan e programmi elettorali tutti nazionali, che con l’Europa nulla hanno a che vedere. C’è chi indica un’agenda in cui il primato spetta al problema delle pensioni, c’è chi esibisce la crisi della sanità, c’è chi invita al voto per garantire la sicurezza sulle strade e nelle case (basterebbe una buona polizza assicurativa?), senza preoccuparsi che a Bruxelles nulla si deciderà sulle risorse nazionali che riguardano la salute, né sulle regole della previdenza, né tantomeno sull’ordine pubblico.
Ma siamo fatti così: ci candidiamo orgogliosamente per non fare e per non esserci. Gonzi gli elettori che cadranno nel tranello. Ma quando il tranello riguarda tutta l’offerta politica come ci si può difendere?
Invocare un dibattito sui programmi alla vigilia di un appuntamento elettorale rischia di farmi passare per un’anima bella che crede alle favole. I programmi elettorali sono spesso un esercizio vuoto anche per i turni elettorali di casa nostra. Perché sperare il contrario per le elezioni europee?
Beh, almeno perché ogni giorno ce la prendiamo con l’Europa, o per indicarla come esempio da imitare e faro da seguire, o per contestarne la miopia burocratica e anti-mediterranea. Non abbiamo mezze misure: o si ama o si odia. Peccato che nessuno ci si metta di buzzo buono per indicare un percorso, un programma, per aiutare l’Italia di domani a diventare meglio di quella di ieri, magari sfruttando le opportunità offerte da Bruxelles e da Strasburgo. Siamo tutti consapevoli che persino la legislazione nazionale dipende in larga parte dalle indicazioni offerte dall’Europa: c’è chi ha contato che quasi il 60% dei nostri decreti legislativi sono improntati sulla normativa predisposta (qualche anti-europeista direbbe, o avrebbe detto: imposta) da Bruxelles.
La dipendenza dall’Europa è chiara, sul fronte economico – dai fondi strutturali al Pnrr – e su quello regolamentare (a esempio sulla concorrenza). E quando non ci adeguiamo ai regolamenti o alle direttive Ue dobbiamo contabilizzare un contenzioso che pesa per quasi 100 milioni di euro all’anno di multe per le infrazioni e 74 procedure ancora aperte, in cui l’Italia è sotto accusa per non essersi adeguata al diritto europeo. E ciononostante, sembra che nessun italiano ambisca a diventare un esperto delle tante materie che occupano le riunioni e le riflessioni europee, e nessuno si voglia proporre al consenso elettorale per la sua competenza. Potrei persino azzardare – temo senza sbagliarmi – che la maggioranza degli europarlamentari italiani non sia nemmeno in grado di leggere i dossier predisposti dagli uffici di Bruxelles, solo perché sono scritti in inglese.
Fonte: Affari Italiani