L’ultimo fallimento certificato riguarda “Garanzia Giovani”. In questi giorni il Sole-24 Ore ha anticipato i dati dell’ultimo monitoraggio del programma – ormai decennale – che avrebbe dovuto avviare al lavoro buona parte della numerosa pattuglia di Neet italiani, cioè i giovani fino a 29 anni, che non studiano e non lavorano. Un vero e proprio esercito a riposo: secondo gli ultimi dati pubblicati nel corso dell’anno da Eurostat e Istat, i Neet in Italia rappresentano oltre il 25% della popolazione compresa tra i 15 e i 34 anni (circa tre milioni di giovani), secondo la categorizzazione dell’Istat che porta il perimetro a 34, non a 29 anni.
Innanzitutto, le risorse dopo dieci anni non sono state nemmeno spese tutte. C’erano a disposizione 2,2 miliardi di euro, ne risultano giacenti quasi 700 milioni. Più o meno un terzo dei finanziamenti sono ancora in cassa. Spesi poco e spesi male, visto che a fronte di una popolazione Neet intercettata pari a oltre l’80% del totale conosciuto, solo il 26% di questa grande comunità di “giovani in attesa” è stata avviata al lavoro tra il 2014 e il 2023.
Fallimento che impone o la restituzione di ingenti risorse all’Europa, o la distribuzione delle somme non spese su altri programmi, la cui efficacia c’è da temere non sarà molto diversa da quella di Garanzia Giovani. Insomma, non mancano i finanziamenti, mancano i risultati, quindi – forse – c’è qualcosa che non funziona nel processo definito nelle politiche attive per il lavoro.
Aspettiamo l’aggiornamento del Programma Gol – in questo caso ci sono a disposizione 4,4 miliardi del Pnrr più un altro miliardo aggiunto per il 2024 – ma gli ultimi dati somigliano molto a quelli di Garanzia Giovani. A fronte di un alto numero di soggetti “presi in carico” c’è una bassissima percentuale di percorsi formativi attuati: solo il 44% risulta avere una politica “proposta” o “avviata” (non distinguendo, quindi, coloro i quali fossero effettivamente impegnati in una misura). L’obiettivo pare spesso puramente amministrativo: documentare numeri, senza saper produrre performance.
Siamo sicuri che in questi casi – cioè per le politiche attive per il lavoro – la strada della regionalizzazione sia quella più idonea? Non si tratta, almeno per quanto mi riguarda, di porre in campo una visione ideologica circa l’autonomia più o meno differenziata, ma semplicemente di inseguire buoni risultati, da cristallizzare in buone pratiche.
Se avessimo dovuto regionalizzare le politiche passive – dalla cassa integrazione ai pensionamenti – siamo sicuri che non avremmo fatto il male di tanti soggetti, che avrebbero vista liquidata la loro prestazione in tempi e modalità diverse da regione a regione?
C’è un problema irrisolto di efficienza regionale – in molte regioni, non solo al sud – e c’è un irrisolto approccio rivolto alla soluzione dei problemi, che sembra destinato a restare sottoposto alla soddisfazione degli attori chiamati alla soluzione, piuttosto che ai destinatari delle politiche. Sarebbe come se dovessimo soddisfare i negozianti e non i clienti.
Il problema non è di oggi. Quando una decina di anni fa – ero ancora presidente Inps – chiesi al mio ministro del Lavoro di allora, era Enrico Giovannini, di affidare all’Istituto la gestione di nuove risorse per le politiche attive, mi sentii rispondere che non era il caso. Prima che l’autonomia fosse una bandiera leghista, il decentramento è stato per decenni un cavallo di battaglia del Pci, prima ancora del Pd. Bisognava contrastare sul territorio il Governo centrale appannaggio per decenni delle alleanze tessute dalla Dc nella Prima Repubblica.
La questione non è ideologica né politica, non riguarda né l’autonomia, né il decentramento: ci sarebbe solo da inseguire un sano pragmatismo capace di invertire un’inerzia decennale che vede l’incapacità dei Centri per l’impiego a produrre solidi collegamenti tra domanda e offerta di lavoro (con una percentuale di “collocamenti” stabilmente al di sotto del 2%). Ci sarebbe da mettere in discussione la pletora di soggetti “formatori” che producono percorsi standard e non si attrezzano per intercettare le esigenze delle imprese e dei territori, creando pacchetti “open” orientati alle opportunità del mercato del lavoro reale, non rivolto alle comodità di chi eroga servizi formativi “a catalogo”. Sarebbe il caso che in tutto ciò il mondo sindacale facesse un passo indietro anche nel fomentare polemiche, essendo in buona sostanza integrante di gran parte della platea di soggetti che si interfacciano – con scarsi risultati – con i Centri per l’impiego.
Le politiche attive del lavoro dovrebbero essere “accentrate”? Potrebbero essere concentrate nel grande erogatore di politiche passive? Non voglio fare un endorsement per l’Inps. Non ne ho più titolo né ruolo, e magari potrebbe persino essere controproducente (per l’Inps). Mi piacerebbe che potessimo uscire da un regionalismo improduttivo e inefficiente per poter offrire opportunità e soluzioni ai lavoratori e alle imprese, per facilitare un incontro che farebbe bene a tutti.
Fonte: Il Riformista