Quasi un terzo degli italiani incassa una pensione. Una conferma della crisi demografica dell’Italia, prima che della sua crisi di finanza pubblica. Sarà per questa forza preponderante della “categoria” dei pensionati (che votano, consumano, sorreggono le economie familiari), ma il tema delle pensioni continua a essere soggetto a una distorsione narrativa tutt’altro che marginale. Per anni si è continuato a immaginare la pensione come un ammortizzatore sociale. C’è una crisi aziendale o di comparto? Prepensionamento. C’è una categoria sociale forte da proteggere? Baby pensioni (ne paghiamo ancora gli effetti devastanti: più o meno 4 miliardi all’anno). Mentre la pensione dovrebbe essere “solo” il salario differito nel tempo, quando la capacità di lavoro si fa più flebile con l’avanzare dell’età. Anche intorno a “quota 100” si è innescata una retorica più forte dei fatti da raccontare. Innanzitutto sembra che si fossero sbagliate le previsioni. Stanziati 19 miliardi in tre anni, se ne sono spesi circa 10. Vuol dire che la “protezione” che si è ritenuto di stendere su soggetti cui consentire un’uscita anticipata – rispetto ai 67 anni previsti per vecchiaia – è stata immaginata troppo abbondante. La domanda è radicalmente diversa dall’offerta. E allora, cancellata nottetempo la riga originariamente prevista nel Pnrr – “ln tema di pensioni, la fase transitoria di applicazione della cosiddetta Quota 100 terminerà a fine anno e sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti’’ – stiamo precipitando di nuovo nei ghirigori normativi: quota 102, al posto di quota 100? No, meglio quota 41? Un nuovo rosario di scalini e scaloni – già visto – e di “salvaguardie”? Mi permetto di dire che non è questo il problema. La pensione (e parlo di quella contributiva, non mi riferisco alle sacrosante – se controllate ed elargite solo ai veri bisognosi – forme assistenziali) non può essere sottratta al suo naturale alveo di riferimento: il lavoro. Giovani e previdenza Quale futuro?
Il sistema a ripartizione collega stabilmente l’erogazione della pensione alla contribuzione dei lavoratori attivi. Se non c’è lavoro (e dignitosamente retribuito) non c’è contribuzione; se non c’è contribuzione non c’è pensione. Se non si promuove il lavoro non c’è quota che tenga. Se i giovani non lavorano non c’è futuro per il Paese. C’è un legame indissolubile tra il lavoro dei giovani e la pensione, non solo la loro pensione futura, ma la pensione della generazione che li precede, perché la pagano loro; così come la loro sarà pagata dai loro figli.
Il problema di “quota 100” non è una nuova ingegneria previdenziale da allestire nella “fabbrica delle pensioni”, è il lavoro dei giovani. E il lavoro dei giovani non si produce prepensionando i meno giovani, ma favorendo l’imprenditorialità, semplificando il sistema produttivo, alleggerendo vincoli e fisco. Il nuovo patto generazionale non è “sostitutivo”, ma integrativo: deve integrare l’attività dei giovani nel mondo del lavoro.
Se i 9 miliardi risparmiati dalle previsioni di “quota 100” fossero destinati a un Fondo esclusivo per la promozione del lavoro dei giovani (sgravi contributivi per i primi tre anni?
Defiscalizzazione parziale per le imprese che assumono i giovani?) avremmo fatto una scelta più equa e sostenibile per tutti, giovani, meno giovani, Paese intero. Il patto generazionale di cui l’Italia ha bisogno non riguarda l’incontro tra due o più corporazioni – quella dei pensionati e quella dei Millennials o della generazione Z – ma l’integrazione solidale di due o più componenti (non solo anagrafiche) dello stesso Paese. Il futuro non può essere la somma di tanti egoismi opposti e divergenti: chi si avvicina alla pensione pensa al “dopo quota 100”, chi teme per il futuro del proprio lavoro conta sul prolungamento del blocco dei licenziamenti, chi il lavoro non ce l’ha, spera in una cassa integrazione continua, chi il lavoro non ce l’ha e non lo cerca, vuole essere rassicurato sul prolungamento del reddito di cittadinanza.
Ognuno per sé, tutti contro tutti. Vecchie generazioni contro nuove, e viceversa. Interessi inconciliabili che diventano compatibili solo in un orizzonte di assistenza insostenibile. Un Paese di egoismi è un Paese finito, prima ancora di essere fallito. Non si possono inseguire soluzioni parziali in un tempo di ricostruzione generale.
Fonte: Espansione