La media è del 20%, ma a ben guardare per le posizioni di lavoro più “specializzate” si arriva all’80%. Tanti sono i vincitori di concorsi pubblici che preferiscono rinunciare al posto che avrebbero conseguito a tempo indeterminato. Il posto fisso nella Pubblica Amministrazione (Pa) è sempre meno ambito, soprattutto dai giovani e soprattutto da coloro che possono offrirsi sul mercato con competenze più profonde. La Pa rischia di essere un ripiego. E non è una buona notizia per la Pa e tanto meno per i cittadini che rischiano di vedersi dedicate le risorse meno qualificate.
I dati sono quelli del Formez. E confermano una tendenza in atto da tempo, la Pubblica Amministrazione non è attrattiva per i giovani. E a dire il vero non fa molto per diventarlo. L’età media dei dipendenti pubblici supera i 50 anni. E solo il 4,2% ha meno di 30 anni. Il 55% degli occupati nella Pa ha più di 55 anni, contro il 37% del totale degli occupati italiani.
La tentazione è sempre quella di favorire l’esistente, il già presente, il già inserito. E non solo per il blocco del turn over ormai decaduto. Nel decreto Pnrr è tornata la norma che prevede la possibilità di nominare i pensionati per incarichi dirigenziali retribuiti nella Pa. Intendiamoci, nulla contro la silver economy, né contro il valore della “seniority”. Ma è difficile credere che nell’esercito di 3 milioni e mezzo (più o meno) di dipendenti pubblici in attività non ci possano essere candidati alla dirigenza.
Perché ricorrere ai pensionati? Il ministro Zangrillo si è premurato di assicurare che si tratta di una possibilità ridotta a “un numero molto ristretto di casistiche”. Ma anche in questo caso sembra emergere la solita discrezionalità che fa a pugni con le attese e le pretese di chi, giovane, si avventura nel mondo del lavoro. Servono regole certe e sicure, percorsi di carriera possibili, non interrotti da una gerontocrazia intoccabile.
Una certezza e una equipollenza di trattamenti che viene meno, non da oggi, anche sul fronte del pensionamento. È difficile spiegare perché un magistrato o un docente universitario possano lavorare fino a 70 anni. E magari oltre, con qualche deroga. Insegnare in un’aula universitaria o amministrare la giustizia non è considerato un lavoro “gravoso” come quelle 27 tipologie indicate dalla commissione presieduta da Cesare Damiano (che ha dovuto innovare anche il lessico, aggiungendo la parola “gravoso” a quella consolidata di “usurante”). La commissione Damiano decise di allargare l’elenco confezionato dall’Inail che utilizza – per definire il lavoro “usurante” – tre criteri oggettivi: frequenza degli infortuni, numero medio di giornate di assenza dal lavoro causa infortunio, numero medio di giornate di assenza causa malattia. E così allargando i criteri anche l’insegnate di asilo nido risulta lavoro gravoso, al pari di quello usurante che manovra gru o fa lavori di facchinaggio.
C’è un senso comune in tutto ciò? Qualcosa che possa consentire di immaginare un percorso di lavoro e di carriera oggettivo e perseguibile per un giovane aspirante lavoratore? Temo di no. L’opacità è totale. Anche perché nessuno si premura di rappresentare i giovani, tanto meno quelli che cercano lavoro e nemmeno quelli che avendolo trovato vorrebbero trattamenti analoghi ai colleghi meno giovani. I sindacati sono ormai rappresentanti dei pensionati e dei lavoratori pensionandi (quante battaglie per anticipare la pensione e quanti pochi interventi per favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro). E i partiti sono attenti solo a chi vota. E la percentuale di astensione – come abbiamo visto in Lombardia e nel Lazio – conferma che la platea dei rappresentati è sempre più esigua. Largo ai giovani? No, nella Pa forse è meglio dire: giovani alla larga!
Fonte: Libero Economia