Il vicepremier Matteo Salvini in questi giorni ha dichiarato che “serve una profonda riforma della Giustizia”. Difficile non essere d’accordo. Per molti motivi, anche per quello che lo stesso ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ribadito di recente: “La lentezza dei processi ci costa fino al 2% del Pil”. So bene, per motivi anche personali, quanto sia necessario e urgente mettere mano all’amministrazione della Giustizia in Italia, per rassicurare i cittadini, soprattutto. Mi stupisce un po’ che a ricordarlo siano due esponenti del Governo in carica, che conta su un’ampia maggioranza parlamentare.
Lo stesso stupore che mi viene leggendo nella Nadef che le privatizzazioni potrebbero produrre un punto di Pil in più: venti miliardi di euro. D’accordo anche qui. Ma perché non si fanno? Sembra di sentire anche il ritornello sulle pensioni, riforma considerata necessarissima – anche se in questo caso potremmo fare qualche distinguo – per disinnescare una “bomba sociale” che mina il futuro delle nuove generazioni. Poi si finisce per far intravvedere che per l’anno prossimo si andrà a un semplice rinnovo di quota 103 (cha favorisce lo scivolo dei meno giovani), annunciando qualche modesto sostegno contributivo agli under 35, che in pensione andranno tra 35 anni.
Se toccare le pensioni è questione delicata e onerosa per il bilancio dello Stato, le privatizzazioni dovrebbero essere una strada in discesa. Le uniche obiezioni verranno sempre e solo dalla “politica politicante”, destinata a perdere ruolo e controllo di fronte all’alienazione di patrimonio pubblico.
Eppure, liberalizzare è solo questione di scelta. E di coraggio. Scelta non pervenuta in questi mesi: sia sul fronte delle mancate liberalizzazioni delle licenze balneari, sia su quello del monopolio dei taxi rimasto inalterato, sia sul controllo mantenuto ed esercitato su Mps o su Ita, tanto per far due nomi. Sia sulla immodificabile – pare – partita del trasporto pubblico locale.
Ci sono orientamenti statalisti – o comunque pubblicisti, se si parla di enti locali e Regioni – che permangono inalterati anche nel cambio di maggioranze di governo e di colore politico. Il trasporto pubblico locale è una di quelle disfunzioni di servizio e di bilancio che grida vendetta al cielo. A patirne le conseguenze sono (“solo”) i milioni di pendolari costretti a subire, in assenza di alternative, ogni mancato investimento e ogni nuovo disservizio. La cultura della privatizzazione è coerente con ogni processo di reale concorrenza, richiesto sempre da Bruxelles – che ha provato a vincolare l’erogazione delle risorse, del Pnrr e non solo, a rigorosi processi di riforma, che spesso rischiano di tradursi in percorsi di formale compliance – ma soprattutto imposto dalla qualità del servizio e dal buon senso, se bastasse.
Il rosario delle mancate privatizzazioni non può escludere il permanere del monopolio dei patronati nell’intermediazione tra Pubblica Amministrazione e cittadini. Già la perdurante necessità di rivolgersi a chi intermedia i servizi e le informazioni della Pa e i “normali” cittadini è un problema che resta irrisolto. Ma il continuo ed esclusivo affidamento a caf e patronati per esercitare questo ruolo di necessaria – ma inopportuna – cerniera tra Stato e utenti è conferma di un tic statalista che sembra ineliminabile. L’ultimo caso: la presentazione delle domande per le due nuove misure che hanno sostituito il reddito di cittadinanza – Supporto per la formazione e il lavoro e l’Assegno di Inclusione – è stata delegata ancora una volta ai patronati.
Nulla contro nessuno, ma tutto a favore di chi saprà raccogliere una eredità del liberalismo che nel nostro Paese è talvolta evocato, ma poco o nulla coltivato anche da chi lo sbandiera.
Fonte: Libero Economia