Sono difficili da reperire il 43% delle professioni intellettuali, scientifiche ed a elevata specializzazione, il 43,5% delle professioni tecniche e il 43,6% degli operai specializzati: sono alcuni dei dati diffusi nell’ultimo Bollettino del sistema Excelsior (Unioncamere-Anpal), che confermano l’incredibile scollamento tra mercato del lavoro e risorse umane disponibili per l’occupazione richiesta.
Dati ancora più incredibili se letti incrociando quelli dell’Istat che ribadiscono un calo degli occupati e un aumento della disoccupazione (e quella drammatica dei giovani che sfiora il 30%). Purtroppo non è una novità. Cala l’occupazione, ma circa un terzo delle domande di lavoro resta senza risposta. A poco serve ripetere il “verbo” diffuso lo scorso anno al World Economic Forum di Davos: il 65% dei bambini che oggi vanno a scuola, una volta diplomati o laureati, svolgeranno dei lavori che ad oggi ancora non esistono. Ma in Italia il problema non è solo la progettualità, che deve riguardare ogni mercato del lavoro, sottoposto allo stress del cambiamento tecnologico e digitale. Dobbiamo recuperare un gap tutto nazionale che deriva da quella tanto sventolata quanto poco praticata, “alternanza scuola-lavoro”, che sola potrebbe aiutare questa già difficile transizione.
Come ricordava qualche giorno fa Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, le preoccupazioni del nostro mercato del lavoro sono ancor più accentuate dal conto alla rovescia che si consumerà il 31 marzo con la fine del divieto di licenziamento. Di per sé un “unicum nei Paesi industrializzati”, come rammentava de Bortoli. E comunque un provvedimento dirigista che non ha impedito la perdita di 300mila posti di lavoro a tempo indeterminato tra febbraio e novembre 2020.
Qualcosa cambierà con il nuovo Governo? Forse. Ma resta il problema di dover guidare questa transizione – che sarà drammatica e dolorosa: salterà un milione di posti di lavoro? – con politiche attive del lavoro che vengono spesso invocate e quasi mai praticate. Non mi propongo di rammentare che proprio la funzione dell’Anpal (l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro) è stata tra i temi che hanno portato alla fine del Governo Conte due. Ormai è acqua passata. Ma non è ancora archiviato il percorso intrapreso dagli ultimi due Governi, che hanno confuso i sussidi con gli strumenti di nuova offerta di lavoro. Si è discusso abbastanza del reddito di cittadinanza e della sua incongruenza con le politiche attive del lavoro. I “navigator” sono rimasti oggetti misteriosi, almeno quanto siamo stati abituati a considerare i Centri per l’impiego.
Non ci si può intestardire a inseguire il cambiamento. Si resterà sempre in ritardo. Gli obiettivi di protezione sociale (le politiche passive per il lavoro) non possono restare l’unico strumento di difesa. Va di moda parlare di “reskilling”. Le aziende già lo promuovono, la formazione e l’aggiornamento delle risorse umane è una delle condizioni per restare “appetibili” per il mercato del lavoro. E si tratta di un obiettivo che dovrebbe essere condiviso dalle imprese, dalle Istituzioni e dalle rappresentanze sindacali.
La crisi imposta dalla pandemia ha accelerato la diffusione delle tecnologie digitali, anche nelle sacche meno innovative del Paese. Tuttavia occorre una sistematizzazione di questi processi di aggiornamento e una collaborazione strutturale con il mondo della scuola (e dell’università). Il sapere non può non fare i conti con il saper fare, fin dall’inizio dei processi formativi, assicurando poi, nel corso della vita professionale e lavorativa, la capacità di aggiornarsi con continuità. Pena l’obsolescenza e la marginalizzazione di gran parte delle risorse umane disponibili sul mercato del lavoro.
Non si può inseguire la conservazione dei posti di lavoro, ma si deve cooperare per costruire nuove opportunità di lavoro per coloro che sono destinati a perdere il “vecchio” posto di lavoro. La sfida è inevitabile e si deve condurre insieme alle imprese, alle associazioni di rappresentanza datoriali, insieme a coloro che si stanno applicando a disegnare i nuovi modelli organizzativi del lavoro. Anche il lavoro da remoto (che sia più o meno “smart”) impone un’evoluzione delle competenze, una rielaborazione dei contenuti del lavoro, della sua relazione, delle sue competenze.
Assistiamo a una crescente necessità di medici (mentre permane ancora inspiegabilmente il numero chiuso per medicina), infermieri e assistenti sanitari per far fronte all’invecchiamento della popolazione e ai nuovi bisogni di cura e assistenza socio-sanitaria delle persone. Ma si apriranno anche le chance nell’edilizia, grazie agli incentivi per le riqualificazioni energetiche di condomini e edifici pubblici. E persino nel settore pubblico, ci sarà la necessità di una forte riqualificazione che non potrà nascondersi dietro l’obsoleto blocco del turn-over.
Primi segnali di crescita si scorgono per le costruzioni (+2,6% nel mese e +13,3% nel trimestre) e per i servizi informatici e delle telecomunicazioni (+4,0% nel trimestre). Tecnici, specialisti in scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali ma anche operai specializzati le figure professionali che saranno maggiormente ricercate. Bisognerà accondiscendere il mercato, senza tentazioni dirigiste. E magari prendere esempio dalla capacità positiva di negoziato tra le parti, che ha consentito il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici.