Non è la prima volta che ci accorgiamo del peso del cuneo fiscale sul mercato del lavoro. Da anni se ne parla, rammentando la differenza che ci allontana dall’Europa e da tutti i Paesi più industrializzati: almeno 11 punti percentuali in più della media Ocse. Ora sembra che – a parole – tutti siano d’accordo per porvi rimedio. Quasi tutti. Il ministro del lavoro, Andrea Orlando, ha fatto sentire la sua voce: “Il cuneo fiscale va ridotto ma questo non risolverà né il problema dell’andamento tendenziale dei salari, che fa dell’Italia un’anomalia a livello europeo, né quello del lavoro povero. Ho avviato un confronto con le parti sociali per valutare alcuni possibili interventi in grado di raccogliere il consenso più largo tra le parti sociali e le forze politiche”.
Una dichiarazione e tre problemi che gettano piombo sulle ali di chi vorrebbe cambiare. Il primo problema è quasi un tic: il benaltrismo. Ci vuole ben altro per alzare i salari. Forse è vero, ma certamente il cuneo fiscale è una zavorra enorme. Secondo problema: siamo un’anomalia europea per molte altre ragioni, che forse non turbano il ministro del lavoro. Pensiamo ai Neet (i giovani che non cercano lavoro e non studiano più)? Il rapporto Eurispes OCSE 2022 mette ai primi posti in classifica Svezia e Paesi Bassi, entrambi paesi in cui i Neet sono al 7%. In Italia siamo oltre il 25%. Terzo problema, forse il più drammatico: la soluzione di ogni criticità starebbe nel “raccogliere il consenso più largo tra le parti sociali”.
L’ansia del consenso coincide con una delle ossessioni che hanno segnato la storia recente del dibattito politico e sociale: la concertazione. Nulla contro il confronto, anzi. L’ascolto delle voci e delle ragioni contrapposte è sale della democrazia. Ma poi c’è il capitolo delle decisioni, delle scelte, che sono quasi sempre mancate.
E mi sento di fare una domanda al nostro presidente del Consiglio, il “migliore” del Governo dei “migliori”. Siamo sicuri che il metodo della concertazione sia ancora quello che più si addice alle riforme urgenti del Paese? L’esperienza sembra suggerire qualche dubbio.
Ho appena ricordato il cuneo fiscale, la percentuale dei Neet, ma potremmo anche rammentare l’inconcludenza dei Centri per l’impiego – che in Italia intermediano poco più del 2% del mercato del lavoro, contro percentuali anche dieci volte superiori nei principali Paesi Ue – il tasso di disoccupazione giovanile (e non solo). Sono tutte performance negative che in qualche modo sono “figlie” della regola della concertazione, dell’obbligo del consenso.
Il presidente del Consiglio sa che cosa vuol dire decidere. Ne sentiamo la nostalgia come europei – prima che come italiani – pensando a quando era a capo della Bce. Basta ricordare il suo “whatever it takes”, che indica decisionismo senza obbligo di concertazione (i tedeschi non sono mai stati molto d’accordo).
Mario Draghi sa che cosa vuol dire decidere, e Dio sa quanto bisogno di decidere abbiamo in tema di mercato del lavoro. Gli effetti di trent’anni di concertazione sono di fronte a tutti. Anche la semplice lettura di una busta paga basterebbe a far comprendere il sedimento incomprensibile che si è accumulato nei rapporti di lavoro, fino a renderli illeggibili. Sarebbe ora di cambiare pagina. A partire dal cuneo fiscale? Sì, ma non solo.
Di recente c’è chi ha contato almeno una ventina di “incentivi” alle assunzioni (per i giovani, per i residenti al Sud, per le donne, per l’apprendistato, etc.). Risultato? Deprimente. Forse si dovrebbe disboscare anche la foresta dei bonus occupazionali, con il coraggio di restituire al mercato la capacità di produrre soluzioni, senza soffrire degli effetti di un dirigismo inconcludente.
Fonte: Libero Economia