La riforma delle pensioni predisposta da Elsa Fornero (Governo Monti, 2011) costituì l’argomento principale per rispondere alla allarmata lettera che Mario Draghi (allora presidente entrante della Bce) firmò con il presidente uscente, Jean-Claude Trichet, per rivolgerla al Governo Berlusconi. Dieci anni dopo Draghi non ha ripristinato tout court quella riforma, deformata da “quota 100” – e prima ancora parzialmente svuotata da nove provvedimenti di deroga, le cosiddette salvaguardie – ma ha semplicemente rinviato la questione di un anno, preparando e proponendo una soluzione intermedia (la cosiddetta quota 102).
Ci si poteva aspettare uno strappo più deciso, proprio in nome di quella “richiesta” esaudita dalla riforma Fornero? Sulle pensioni non ci si dovrebbe limitare a dare i numeri. Si dovrebbe guardare all’orizzonte, puntare gli occhi a un futuro dove i protagonisti non devono essere i “prepensionati” di due-tre-quattro anni, rispetto all’età anagrafica di 67 anni, ma i loro figli, e magari i loro nipoti che ancora non hanno iniziato a lavorare.
Negli sguardi verso l’orizzonte sarebbe già molto non ricadere in errori marchiani verso i quali i nostri politici amano incorrere. La favola di quota 100 – al di là dei costi generati, comunque inferiori a quelli attesi, anche se pur sempre eccessivi: 11 miliardi in tre anni – si fondava su una falsa credenza: pensionarsi serve a favorire l’entrata nel mondo del lavoro. La staffetta generazionale era stata indicata come obiettivo sociale prioritario. Si era vaticinato un rapporto di 1 a 3. Un pensionato a quota 100 avrebbe generato tre nuovi posti di lavoro. Falso. Tre volte falso. Non c’è mai stata alcuna evidenza che il pensionamento generi automaticamente nuova occupazione. Anzi. Nei Paesi in cui il tasso di occupazione dei lavoratori anziani è più alto, il tasso di occupazione giovanile è il più elevato. Il lavoro genera lavoro.
Di più: nel caso di quota 100 l’evidenza emersa è proprio quella contraria, cioè l’uscita anticipata dal lavoro ha frenato la ripresa, ha raffreddato la nuova occupazione. In questo caso, dati alla mano: c’è uno studio fornito da quattro ricercatori di Banca d’Italia di cui ha scritto in questi giorni Federico Fubini. Il vero obiettivo per una riforma delle pensioni si deve collegare alla creazione di nuova massa contributiva. Quindi favorire il lavoro, accelerare l’accesso, ridurre i Neet, e restringere il perimetro dell’assistenzialismo (non l’assistenza rivolta alla povertà assoluta, ovviamente) per indurre più persone a occuparsi.
E’ stato documentato che i beneficiari di quota 100 non sono stati i più “bisognosi”. Un terzo viene dal pubblico impiego. Il 70% è di genere maschile. Si è trattato di una misura che ha accentuato la distanza tra chi sta meglio e chi sta peggio. Un analogo bilancio critico dovrebbe essere consegnato anche sul Reddito di cittadinanza. Un fallimento per le politiche attive del lavoro. Una pecetta per i nuovi e vecchi poveri, nonostante i proclami del giorno dopo (“abbiamo abolito la povertà” diceva Luigi Di Maio un anno e mezzo fa). Un bengodi per vecchi e nuovi trafficanti di illeciti, favoriti da un’amministrazione che poco ha fatto per le verifiche preventive. Lo si è toccato con mano grazie alle inchieste di Carabinieri e Guardia di Finanza.
Il lavoro è l’unico antidoto alla crisi delle pensioni (così come alla distorsione di misure assistenziali di brevissimo respiro e di sapore illecito). Non ci si può concentrare sulle pensioni di oggi, con il rischio di dimenticare quelle di domani. Non si può insistere nel far pagare il conto – della crisi demografica, così come del favorevole aumento dell’aspettativa di vita (Covid a parte) – ai più giovani, privilegiando coloro che sono alle viste della conclusione della propria carriera lavorativa. Fissare lo sguardo su qualche migliaio di dipendenti che potrebbero guadagnare tre o quattro anni di pensione in più, costringe a non vedere i milioni di giovani che sono destinati a dover ridurre comunque le proprie aspettative previdenziali.
Fonte: Espansione