Attualmente sono 626 e valgono circa 165 miliardi di euro. È il fardello – o l’opportunità, dipende da che parte lo si guarda – delle “tax expenditures” che pesa sulla spesa pubblica. Detrazioni o deduzioni che consentono ai contribuenti di alleggerire il loro conto con il Fisco, e che riducono sensibilmente gli incassi dello Stato.
La questione attraversa come un fiume carsico la politica fiscale dei Governi italiani, almeno da quando nel 2010 l’allora titolare del Mef, Giulio Tremonti, avviò una indagine conoscitiva per capire quante risorse non si spostavano nelle casse dello Stato, per “colpa” di una serie di norme e di provvedimenti sedimentati nel tempo, per alleggerire i conti degli italiani con l’Agenzia delle Entrate.
Sembrò una iniziativa “una tantum”, capace comunque di mettere in fila, allora, circa 200 miliardi di euro che in modi diversi venivano sottratti alle entrate fiscali, attraverso centinaia di diverse forme di deduzioni o detrazioni. Tutto legittimo, nulla a che vedere con l’evasione, ma scelte di politica fiscale che derivavano dal sedimento di diverse azioni – spesso “micro-azioni” – di politica economica, più o meno inclini ai suggerimenti di lobby qualificate.
Da allora – in verità pochi anni dopo – si istituì una Commissione permanente che ogni anno ha fornito un aggiornamento di questa voce, graditissima ai contribuenti che ne fanno uso e ai politici che in base a questi provvedimenti di alleggerimento fiscale hanno investito sul consenso di categorie sociali ed economiche. Meno soddisfatto è sempre stato il Ministro dell’Economia che ha dovuto contabilizzare il monte di risorse che non avrebbe potuto incassare, restringendo ogni anno il margine di manovra per definire il “peso” della legge di bilancio per l’anno successivo.
Il tema si è riproposto a fronte delle previsioni di rigore che la manovra 2023 per il 2024 dovrebbe assumere in forza di margini di bilancio più che risicati: dai 12 ai 20 miliardi di nuova spesa, non di più. Il ministro Giorgetti se l’è presa con le conseguenze del superbonus 110% – che sottrae al Fisco altri 80-100 miliardi – senza ricordare il valore delle “tax expenditures”. I due valori sommati creerebbero un margine di manovra di più di 200 miliardi, altro che 12-20! Basterebbe fare scelte di politica economica e industriale, e quindi – di conseguenza – di politica fiscale. Invece in questi anni abbiamo visto accumularsi, oltre alla congerie di detrazioni e deduzioni – erano meno di 500 nel 2016, oggi sono 626 – anche i bonus di varia natura. Tutti hanno un costo per la collettività, producendo sconti fiscali ancora prima delle dichiarazioni dei redditi. Il “superbonus” è solo il più clamoroso.
Eppure, è proprio questo lo scoglio – bonus e spese fiscali – attorno al quale gira da anni la politica italiana. E anche la riforma fiscale rischierà di essere lettera morta se non si scioglierà questo nodo. Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, lo scorso 14 agosto, della Legge delega su cui poggerà la riforma fiscale, ora si dovrebbe passare alla fase operativa, quella che prevede i cambiamenti veri e propri che non saranno realizzati tutti in una volta, ma per step. Un progetto ambizioso visto che l’ultima vera riforma fiscale risale agli anni ’70 del secolo scorso anche se da allora ci sono stati provvedimenti sparsi che sono serviti solo a tamponare falle e a creare quella giungla dove sono fiorite “tax expenditures” e bonus.
Per l’operatività, in ogni caso, c’è ancora tempo: dall’entrata in vigore – lo scorso 29 agosto – ci saranno 24 mesi per approvare i decreti legislativi di modifica, collegati alla legge delega. Vedremo, ma certo è che tutto o quasi dipenderà dalla capacità di risolvere questo dilemma, che pesa già tanto sulla manovra che si appresta a varare il Governo Meloni.
Fonte: Espansione