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In ferie da cosa? Il blocco estivo paralizza l’Italia

Ma in ferie da che cosa? Sergio Marchionne merita un ricordo commosso e deferente per tante cose: per i suoi successi manageriali, per aver risanato la Fiat facendola diventare una effettiva multinazionale, per il suo look così poco “bocconiano” che non gli impedì, proprio davanti agli studenti dell’ateneo milanese, di mostrare tutta la sua schiettezza, rammentando la domanda che pose negli uffici di Mirafiori nell’agosto 2004. La Fiat perdeva 5 milioni al giorno. “Stavo girando per il mondo, arrivo in Italia – raccontava Marchionne – vado in ufficio e non c’è nessuno. Chiesi dov’era la gente. Mi risposero: sono in ferie. E io replicai: Ma in ferie da cosa?”.

Sarebbe bello poter dire che vent’anni dopo qualcosa è cambiato. Ma non è così. In agosto l’Italia si ferma, unico tra i Paesi industrializzati. Una sosta che somiglia a una interminabile “siesta”, che nemmeno i Paesi latino-americani si vogliono permettere. L’ex ad di Fiat ribadiva: “In Brasile se ne fregano di agosto, in America ad agosto si lavora”. Nei Paesi anglosassoni (e in quelli Nord europei) non ci si sogna di azzoppare il Pil per un dodicesimo dell’anno. Senza parlare dei Paesi asiatici.

In agosto non si possono fare ordini ai fornitori; non si possono programmare riunioni di lavoro; non si possono prenotare interventi chirurgici; non si possono accendere mutui. Se ne parla a settembre, esercitando la solita capacità di “comprare tempo”, dimenticando che nemmeno il tempo è gratuito, e si sottomette al costo di ogni prestito.

Il blocco di agosto non è un problema di temperature, o di latitudini, ma di abitudini sottratte alla competizione. E poi non è nemmeno questione di un mese. Già a luglio ci siamo sentiti dire: “Ne parliamo a settembre”. E a settembre ci sentiremo rispondere: “Sono appena tornato dalle ferie, sono sepolto da migliaia di mail. Dammi qualche giorno e torno da te”.

Il rituale poi si ripete a metà dicembre, fino a dopo l’Epifania. E poi ci sono i ponti pasquali, e quelli che ci fanno sentire architetti della vacanza, tra il 25 aprile e il primo maggio.

Ma non si sono affermate le “ferie scaglionate”? Sulla carta sì. Ma di fatto si è creato un più lungo stato letargico nelle organizzazioni del lavoro prive di metodo: la riduzione del personale in attività, tra giugno e settembre, accentua rinvii e smagrisce la produttività. Solo in Italia i contratti collettivi di lavoro indicano un periodo obbligatorio in cui fruire delle ferie. 

Una volta si diceva che “in agosto chiude tutto”. Oggi si gongola nel vedere qualche serranda alzata (tra le tante che negli ultimi anni non si sono più viste rialzare, causa definitiva chiusura), peccato che il “backstage” (dei fornitori e dei collaboratori) sia desertificato o rarefatto quanto basta per allargare il periodo del rinvio.

A nulla sono valse le ironie di Marchionne o i tentativi di Silvio Berlusconi che propose (inascoltato) una normativa che imponesse l’inizio delle ferie al lunedì (per disinnescare le tentazioni dei ponti dell’italica abilità: “Con un giorno di ferie, sto a casa cinque giorni”).

L’Italia si è fatta televisiva prima della rivoluzione mediatica imposta dalle televisioni commerciali. Il nostro ritmo di vita lavorativa somiglia a quello che vediamo nei palinsesti televisivi. Da maggio a settembre (più o meno) vige il periodo privo di garanzia per gli investitori pubblicitari. Complice la bella stagione e la vita all’aria aperta, le emittenti televisive sanno che gli italiani sono meno incatenati al sofà davanti al teleschermo, e quindi non si impegnano a vendere quel dato numero di teste/telespettatori a chi fa pubblicità. E allora vanno in onda le repliche e le produzioni a basso costo. 

Ma una pausa produttiva lunga cinque mesi – comprensibile per il sistema televisivo, anche se oggi la frenesia istantanea e compulsiva del web e dei social sta mettendo in crisi anche questo modello – non si addice a un Paese del G7. O per lo meno è incompatibile con le ambizioni competitive (e anche retributive) di chi lavora 365 giorni l’anno. La pubblicità, forse, può attendere. La vita quotidiana di chi è chiamato a produrre beni e servizi no.

Fonte: Il Riformista