Invocare un’agenda Mattarella vuol dire coltivare un’illusione ottica, confondendo ruoli e responsabilità. Il Governo dovrebbe governare, il Parlamento dovrebbe legiferare, il capo dello Stato dovrebbe garantire che tutti e due compiano il loro dovere nel rispetto della Costituzione. Dettare agende non dovrebbe essere suo compito. Soprattutto in tema di giustizia il cortocircuito si fa clamoroso.
Già, perché in tema di amministrazione della giustizia il presidente della Repubblica più che indicare prescrizioni applaudite, potrebbe (dovrebbe?) intervenire in proprio. Augurarsi che il Csm superi “le logiche di appartenenza” è troppo poco per chi lo presiede. Il Capo dello Stato è il vertice della Magistratura e secondo la Costituzione presiede l’organo di amministrazione della giurisdizione. Il vicepresidente “sostituisce il presidente in caso di assenza e impedimento ed esercita le funzioni che il presidente gli delega”. Come dire: il presidente presiede come e quando vuole la vita del Csm. Il controllo delle attività del Csm è graniticamente nelle mani del Quirinale. Delegarne la presidenza è una scelta. In tempi di crisi potrebbe essere una scelta inopportuna.
Un anno fa 67 magistrati inviarono a Mattarella una lettera-appello: le iniziative legislative di riforma del Csm auspicate dal presidente della Repubblica quando nel 2019 scoppiò il caso Palamara, “e annunciate come imminenti, sono ben lungi dal tradursi in realtà”. Ora più di allora. Nonostante il nuovo auspicio presidenziale davanti al Parlamento.
Che siano tempi di crisi per la giustizia in Italia è chiaro a tutti anche se – come ricordava Vittorio Feltri su queste pagine, anticipando il nuovo libro del Direttore Alessandro Sallusti – “siamo assuefatti all’ingiustizia”. Se volessimo limitarci agli effetti economici, l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia è uno dei principali motivi della renitenza a investire nel nostro Paese da parte del sistema finanziario internazionale.
Una macchina che gira a vuoto. Costa tanto e produce poco. Inibisce molto le iniziative private, che devono scontare costi e tempi inadeguati agli obiettivi economici (che vuol dire spesso meno posti di lavoro e più spesa pubblica). Il 64% dei procedimenti che escono dalle Procure dopo la fine delle indagini preliminari non va a giudizio. Fin qui una pessima performance della pubblica amministrazione.
Ma poi c’è un problema più spinoso: l’impatto della malagiustizia sulla vita delle persone. Solo nel biennio 2019/2020 le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione sono state 1.750 (comunque la punta di un iceberg di provvedimenti di limitazione della libertà assunti con leggerezza irresponsabile), con un esborso per lo Stato di oltre 80 milioni di euro. A fronte di questi provvedimenti ingiusti che lo Stato ha riconosciuto come tali, sono state promosse solo 45 azioni disciplinari contro i magistrati, senza che sia stata pronunciata dal Csm una sola censura. Finora, insomma, per 1.750 errori conclamati, 283 dei quali non più impugnabili, non c’è stato nessun ammonimento: per trovarne tocca risalire al 2018, anno in cui a fronte di 509 indennizzi per ingiusta detenzione riconosciuti sono stati sottoposti ad azione disciplinare 16 magistrati, quattro dei quali censurati. Malagiustizia e scarsa incisività dell’azione disciplinare, insomma, giustificano l’opportunità del richiamo del Capo dello Stato, fino al punto di auspicarne un intervento diretto, in forza delle sue prerogative, senza doversi appellare al Parlamento o all’Esecutivo.
La triste collezione di alcune ingiuste detenzioni ha offerto a Stefano Zurlo lo spunto per un libro documentato e terribile. Ma di storie così ce ne sono tante, non sempre raccontate perché non sempre conosciute, talvolta taciute per pudore e per carità di patria. Enrico Costa ha recentemente ricordato che tra il 1991 e il 2000 oltre 30mila persone in Italia sono finite in cella per poi vedersi assolvere o prosciogliere. E’ troppo. All’ingiustizia c’è chi non vuole assuefarsi.
Fonte: Libero Economia