L’Italia non è un Paese dove fare rivoluzioni. L’unico sangue tollerato è quello dei vinti; i vincitori non vogliono ferite, solo successi. Quindi si adoperano a brigare nelle stanze del potere, piuttosto che rischiare la piazza.
La rivoluzione comunista in Italia inciampò su Bartali. La vittoria al Tour sopì tumulti e violenze successivi all’attentato a Togliatti. Il ’68 fu una rivoluzione sociale, più che socialista. Gli anni di piombo furono un incubo, certo non una rivoluzione. La rivoluzione liberale sognata da Berlusconi nel 1994 si incagliò a più riprese nel ventennio che il Cavaliere segnò con la sua indomita presenza e con le sue rapsodiche assenze. La rivoluzione autonomista e federalista, sgorgata alle sorgenti del Po, rimase spiaggiata sulle rene del Tevere e dei suoi Palazzi del potere. La rivoluzione demagogica – dall’uomo Qualunque di Giannini, fino alla versione social di Grillo e dei suoi haters – esplose e implose, fino a essere rappresentata dall’avvocato del popolo, cresciuto all’ombra dei professionisti del sistema.
Sarà anche per questa sostanziale continuità istituzionale – al più scossa da fremiti e riti di passaggio – che il Paese si scopre immobile, incapace di scrollarsi di dosso le performance negative di ogni classifica di moda nei Paesi occidentali.
“In Italia oltre 3 milioni di giovani – sono le parole recenti del Governatore della Banca d’Italia, Visco – tra i 15 e 34 anni non sono occupati, né impegnati nel percorso di istruzione o in attività formative. Si tratta di quasi un quarto del totale, la quota più elevata tra i paesi dell’Unione europea”. Il record dei “neet” (Not in education, employment or training) in Europa è tutto italiano. Così come l’Italia indossa la maglia nera continentale per il lavoro minorile. Sembra storia d’altri tempi, invece è documentazione di questi giorni: a sollevare il velo sul fenomeno è la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro nell’indagine “Il lavoro minorile in Italia: caratteristiche e impatto sui percorsi formativi e occupazionali”. Dalla ricerca, emerge che tra gli attuali occupati in Italia con età compresa tra 16 e 64 anni circa 2,4 milioni hanno svolto un qualche tipo di attività lavorativa prima del sedicesimo compleanno. Un fenomeno di irregolarità che si conferma ancora diffuso tra i giovani e penalizza le prospettive di formazione e lavoro.
L’Italia è penultima in Europa per quanto riguarda il livello d’istruzione superiore. Ci troviamo, infatti, ben al di sotto della media europea, posizionandoci in fondo alla classifica insieme alla Romania. È quanto emerge nell’ultimo rapporto Eurostat sui progressi dei Paesi Ue verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile. L’Italia, inoltre, non sembra essere in grado di formare professionisti adatti alle esigenze del mercato del lavoro. A tal proposito, gli italiani presentano il minor tasso di alfabetizzazione informatica: solo il 40% degli adulti possiede competenze di base, contro la media Ue che sfiora il 60%.
Il rosario di record negativi potrebbe continuare: l’ultima classifica di Transparency International sulla percezione dei livelli di corruzione nel mondo assicura all’Italia un poco onorevole 52° posto (ventesimo tra i Paesi Ue). Se poi aprissimo le graduatorie sul debito pubblico, apriti cielo, da anni siamo in compagnia della Grecia e del Giappone (che assicura ben altri livelli di produttività, per la quale ancora l’Italia si conferma maglia nera tra i Paesi Ocse, non solo Ue).
Servirebbe una rivoluzione per smuovere questa perdurante atonia del Paese? Impossibile, prima che inutile, nell’Italia – di ieri e di oggi – che subisce la lettura di tutte queste classifiche con impassibilità, mantenendo immutati i suoi riti e le sue rappresentanze. Non solo della politica. Verrebbe da chiedersi se i corpi intermedi ci siano, o siano adeguatamente rappresentati nella Sala Verde di Palazzo Chigi.
L’orizzonte della politica domestica sembra sempre più rivolto alla carriera europea, che non alla rappresentanza delle contraddizioni nazionali. Le rappresentanze datoriali raccolgono adesioni sempre più tra le imprese statali che non tra quelle private. Le organizzazioni sindacali ormai contano più iscritti tra chi non lavora più (i pensionati) rispetto ai lavoratori attivi. Il sindacato ha di fronte a sé problemi non solo nazionali. L’Oil (l’organizzazione internazionale del lavoro) ha redatto qualche mese fa un rapporto proprio sul futuro della rappresentanza sindacale, segnalando il rischio di emarginazione, di dualizzazione (sempre più radicati dove sono ancora rappresentati, sempre meno dove calano gli iscritti), di sostituzione (lasciando il posto a nuove forme di rappresentanza sociale).
Un nuovo mondo sta per sorgere, il new normal, o il next normal come preferiscono alcuni: alla sfera pubblica il compito di intercettarne per tempo segnali e bisogni per scuotere l’immobilismo italiano, che cerca sempre la cooptazione per garantire il vecchio più del nuovo. In attesa delle nuove classifiche sarebbe utile cambiare i processi, visto che i prodotti – da anni – non sembrano buoni.
Fonte: Libero Economia