Ci culliamo spesso nella convinzione che la qualità della vita in Italia sia particolarmente buona. Ma il clima, la dieta mediterranea, i borghi d’arte e cultura non bastano per trattenere i giovani connazionali. E questo costa al Paese qualcosa come 4 miliardi all’anno, almeno nella media degli ultimi tredici anni. Nel biennio 2022-2023 questa “perdita” nel bilancio nazionale è stata anche più sensibile: circa 9 miliardi di saldo negativo. Eppure, sembra che l’agenda dei nostri politici sia compilata “a prescindere”, come se non si trattasse di un allarme.
Ma andiamo con ordine. Nei giorni scorsi Il Sole-24 Ore ha divulgato i dati elaborati dalla Fondazione Nord Est. Almeno 100mila giovani nel 2022 e 2023 hanno lasciato l’Italia, solo 37mila sono tornati. Di più: in 13 anni, dal 2011 al 2023 nella fascia d’età 18-34 anni, il totale delle cancellazioni anagrafiche per l’estero è salito a circa 550mila, contro 172mila iscrizioni (rientri) per un saldo negativo di 377mila giovani.
Dato allarmante di per sé, per chi abbia a cuore il futuro del Paese. Ancora più preoccupante se si fanno due conti. In un recente studio, condotto da una qualificata società di consulenza finanziaria, risulta che educare un figlio, con dati del 2024, costa almeno 140.500 euro, se si considera tutto l’iter scolastico dall’asilo nido all’università. La cifra in verità comprende solo le attività curriculari ed extracurriculari, ma esclude altre voci di spesa collegate come quelle relative a vitto, spese mediche, trasporti, attività sportive e ricreative in senso lato. Prendendo per buona la stima – che, come abbiamo visto, è assai prudente, visto che non comprende alcune voci essenziali per la crescita di un giovane – i conti sono facili: le spese per formare i 377mila giovani che mancano all’appello in questi ultimi undici anni, sono state pari a circa 53 miliardi. Più o meno 9 miliardi quelle sostenute nell’ultimo biennio preso in considerazione. Morale: le famiglie italiane (e il Paese nel suo complesso) spendono tanti soldi, e i Paesi di destinazione (i più scelti dai giovani italiani sono Gran Bretagna, Germania, Svizzera, Francia, Spagna, Brasile, Usa, Paesi Bassi, Belgio e Australia) ne raccolgono i benefici.
La perdita complessiva di capitale umano per l’Italia – oltre alle spese sostenute per la formazione ed educazione, si devono aggiungere quelle mancate di fatturato e Pil per il Paese – è stimata in 134 miliardi di euro.
In questo caso, il “problema giovani” non è connesso alla crisi demografica, che tuttavia aggiungerà effetti negativi. La tendenza in atto – la fuga dei giovani dall’Italia – non contabilizza l’ulteriore calo che nella popolazione avrà la quota dei giovani 18-34 anni, che sarà effetto del progressivo crollo delle nascite. Il calo delle nascite in Italia ha raggiunto un nuovo record nel 2024: una diminuzione del 34% dal 2008 al 2023. L’Italia si conferma tra i Paesi con il più basso tasso di nascite in Europa. I dati diffusi dall’Istat, relativi al periodo tra gennaio e luglio, indicano una riduzione di 4.600 nascite rispetto allo stesso periodo del 2023. Una tendenza che prosegue ininterrotta ormai da oltre un decennio, con un calo complessivo di quasi 200.000 nascite dal 2008 al 2023, pari appunto a una diminuzione del 34%.
Il fattore denatalità, aggiunto alla fuga in atto e aggiunto al fatto che molti ragazzi non si cancellano all’anagrafe italiana, e mantengono la residenza in Italia pur vivendo all’estero, potrebbe triplicare il dato sui giovani italiani all’estero.
Questa fuga all’estero non segue i canoni previsti o la retorica spesso utilizzata. Innanzitutto. non è (solo) una fuga di cervelli. Nei tredici anni (2011-2023) considerati dalla ricerca della Fondazione Nord Est, dei 550mila giovani che hanno lasciato il Paese, poco più del 30% è senza diploma di scuola media superiore, e un altro 30% è al più diplomato.
In secondo luogo, chi va all’estero non ci va solo inseguendo una migliore retribuzione (è la motivazione solo per il 10% di chi va all’estero): i giovani lasciano l’Italia per necessità (28%) – inseguendo migliori opportunità di lavoro (26,2%) e il desiderio di una migliore qualità della vita (23,2%) – o per scelta (23%), per cercare soprattutto migliori opportunità di studio o formazione (29,6%).
Infine bisogna notare che circa la metà di chi ha lasciato l’Italia per necessità svolge mansioni per cui le imprese italiane denunciano di non trovare candidati (tecnico, qualificato nei servizi, operaio specializzato, operaio semi specializzato, lavoratore non qualificato). La fuga dei giovani riguarda più il Nord del Sud, dove l’impresa ha più fame di manodopera.
Politici e sindacalisti si preoccupano? Non si direbbe, hanno altro per la testa. Tanto i giovani non votano e non si iscrivono al sindacato. Se scappano dall’Italia non sembra affar loro. Ma è un allarme vero e forte per il futuro del Paese.
Fonte: Il Riformista