La finestra è quella tra il 15 aprile e il 15 giugno: in questo lasso di tempo saremo chiamati a votare sui cinque referendum ammessi dalla Corte costituzionale. Quattro quesiti riguardano la legislazione sul lavoro, in particolare viene proposta al giudizio degli italiani l’abolizione del “Jobs act”. Era il 2015, il modello Obama trascinava la fantasia dei riformisti che pensavano di aver “conquistato” il Pd. Con lo stesso nome delle norme varate dall’altra parte dell’Oceano, il Governo Renzi introduceva molte novità: la più dibattuta di tutte era il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il tema aveva diviso per decenni – con molta ideologia e poco pragmatismo – partiti politici e organizzazioni sindacali. La legge del 1970, all’articolo 18, appunto, faceva (di fatto) divieto di licenziamento in tutte le imprese con più di 15 dipendenti. Nel caso di licenziamento illegittimo, c’era la «tutela reale», ovvero il reintegro obbligatorio nell’azienda. Con il Jobs act, in caso di licenziamento illegittimo entro i tre anni, il reintegro non diventa più obbligatorio e in caso di licenziamento si ha diritto solo a un indennizzo, da 4 a 24 mesi a seconda dell’anzianità (il governo populista targato M5S-Lega allargò l’indennizzo a 6-36 mesi).
C’era chi paventava un’ondata di licenziamenti e una diminuzione delle assunzioni a tempo indeterminato. E’ accaduto l’esatto contrario. L’occupazione non è mai stata così alta come in questi ultimi anni. Forse Giorgia Meloni ha esagerato nel fare un confronto con i tempi di Garibaldi, ma certamente il tasso di occupazione viaggia a ritmi quasi americani. Abbiamo superato i 24 milioni di lavoratori, le assunzioni a tempo indeterminato sono la maggioranza. E i licenziamenti non hanno fatto registrare sensibili variazioni.
Insomma, un piccolo grande successo per il mercato del lavoro. Eppure, c’è chi ha una voglia pazza di rimettere le lancette dell’orologio indietro di 55 anni. Dal 2025 al 1970, non è un passo da gambero, è un salto da vertigine.
L’iniziativa referendaria è stata promossa dalla Cgil. E potremmo non stupirci. Ormai la confederazione sindacale guidata da Maurizio Landini ha sempre meno lavoratori tra i suoi iscritti: da anni la maggioranza delle sue tessere proviene dai pensionati. Con tutto il rispetto di chi è ormai in quiescenza, il sindacato dovrebbe sintonizzarsi innanzitutto sulle esigenze e i bisogni di chi ancora è attivo nel mondo del lavoro. L’evoluzione della Cgil si è fatta sempre più spiccatamente politica. La base si è ristretta, e la dirigenza ha messo a tema una riflessione sul futuro dell’organizzazione. Cosa legittima, ovviamente, ma che forse richiederebbe una diversa esibizione di obiettivi e strumenti di intervento.
Ma se la posizione della Cgil-partito è discutibile, ma comprensibile, un sussulto in più potrebbe destare la posizione del Pd. In dieci anni, dal 2015 a oggi, il Partito democratico ha operato una inversione di rotta di 180 gradi: dieci anni fa il Governo a trazione Pd, sulla scia obamiana, lanciava la sfida riformista, mettendo in soffitta l’articolo 18; oggi lo stesso partito – sì, certo è cambiata la dirigenza, Elly Schlein non è Matteo Renzi, ma la gran parte dei notabili di allora sono nei ruoli dirigenti di oggi – rinnega tutto e chiede ai suoi elettori di votare per l’abrogazione del “Jobs act”.
Benedetto Croce diceva che “solo i cretini non cambiano mai idea”, ma si rivolgeva a qualche illuminato intellettuale, non a un’intera associazione politica. Alla Direzione del partito del 27 febbraio, Schlein ha confermato l’appoggio suo e del partito al referendum, e ha aggiunto: “So bene che nel partito c’è anche chi non li ha firmati tutti e non chiediamo abiure a nessuno. Ma la posizione del partito deve essere chiara e lineare”. La sua mozione è stata approvata all’unanimità. Insomma, tutta la dirigenza del Pd ha cambiato idea. Anche chi, come Andrea Orlando – solo per fare un esempio – nel 2015 era il ministro Guardasigilli nel Governo Renzi e oggi sostiene che «se noi non fossimo chiari nell’esplicitare la nostra adesione ai referendum comprometteremmo un riposizionamento che dal punto di vista dei risultati elettorali ha consentito di ricostruire un rapporto con un pezzo del mondo del lavoro”.
Opportunismo elettorale? Di fatto, sembra che non ci sia nemmeno un cretino nel Pd. Ed è una buona notizia, certamente. Forse meno esaltante – per chi fa attività politica – è verificare che il rapporto tra partito e sindacato si sia curiosamente invertito nel tempo. Negli anni Settanta la Cgil era accusata – dagli altri sindacati – di essere la “cinghia di trasmissione” del Pci nel mondo del lavoro. A Botteghe Oscure si dettava la linea, l’organizzazione sindacale “fedele” si preoccupava di declinarla in fabbrica e negli uffici. Oggi sembra avvenire il contrario: la Cgil definisce la linea politica (abolire il “Jobs act” e tornare alle regole del 1970 per il mondo del lavoro) e il partito si allinea. Senza se e senza ma.
Fonte: Il Riformista