La minaccia dello sciopero generale per le pensioni riporta la memoria di un tempo che speravamo passato. Per sempre. Le organizzazioni sindacali (e anche quelle datoriali, per la verità) continuano a voler considerare la pensione come un ammortizzatore sociale, più o meno come la cassa integrazione. In questo modo insistono nell’acuire l’opposizione tra generazioni, proprio quando si parla di un istituto per definizione vocato alla solidarietà intergenerazionale.
Non ci si può concentrare sulle pensioni di oggi, con il rischio di dimenticare quelle di domani. Non si può insistere nel far pagare il conto – della crisi demografica, così come del favorevole aumento dell’aspettativa di vita (Covid a parte) – ai più giovani, privilegiando coloro che sono alle viste della conclusione della propria carriera lavorativa. Fissare lo sguardo su qualche migliaio di dipendenti che potrebbero guadagnare tre o quattro anni di pensione in più, costringe a non vedere i milioni di giovani che sono destinati a dover ridurre comunque le proprie aspettative previdenziali.
Non è uno spettacolo edificante il litigio su qualche numero – da quota 100 a quota 102 o 104 o 41 – che sembra confermare la crisi di prospettiva che si vuole imporre. Lo spirito di ri-fondazione nazionale, invocato dopo la pandemia, anche con strumenti finanziari eccezionali (come le risorse collegate al Pnrr) sembra inadeguato alla riemersione di piccoli calcoli di modesto cabotaggio politico. Si invocano visioni e riforme e si finisce per riproporre formule esangui: scalini, scaloni, salvaguardie, quote. Tutto pur di non decidere una visione di sostenibilità sociale e finanziaria.
Qualunque sia la mediazione che il Governo riuscirà a proporre (o imporre) sembra che la materia pensionistica voglia essere sottratta al disegno del futuro del Paese. E i disegni hanno bisogno di prospettiva.
Negli sguardi verso l’orizzonte sarebbe già molto non ricadere in errori marchiani verso i quali i nostri politici amano incorrere. La favola di quota 100 – al di là dei costi generati, comunque inferiori a quelli attesi, anche se pur sempre eccessivi: 11 miliardi in tre anni – si fondava su una falsa credenza: pensionarsi serve a favorire l’entrata nel mondo del lavoro. La staffetta generazionale era stata indicata come obiettivo sociale prioritario. Si era vaticinato un rapporto di 1 a 3. Un pensionato a quota 100 avrebbe generato tre nuovi posti di lavoro. Falso. Tre volte falso.
Non c’è mai stata alcuna evidenza che il pensionamento generi automaticamente nuova occupazione. Anzi. Nei Paesi in cui il tasso di occupazione dei lavoratori anziani è più alto, il tasso di occupazione giovanile è il più elevato. Il lavoro genera lavoro. Di più: nel caso di quota 100 l’evidenza emersa è proprio quella contraria, cioè l’uscita anticipata dal lavoro ha frenato la ripresa, ha raffreddato la nuova occupazione. In questo caso, dati alla mano: c’è uno studio fornito da quattro ricercatori di Banca d’Italia di cui ha scritto in questi giorni Federico Fubini. Il vero obiettivo per una riforma delle pensioni si deve collegare alla creazione di nuova massa contributiva. Quindi favorire il lavoro, accelerare l’accesso, ridurre i Neet, e restringere il perimetro dell’assistenzialismo (non l’assistenza rivolta alla povertà assoluta, ovviamente) per indurre più persone a occuparsi.
Il lavoro è l’unico antidoto alla crisi delle pensioni. Qualunque riforma delle pensioni deve essere connessa con quella del mercato del lavoro. Più di una legge servirebbe una contrattazione serrata. Tra le varie opportunità di anticipo pensione, nella legge di bilancio 2021 era stato inserito anche il contratto d’espansione. Si tratta di una misura che permette alle aziende private di mandare in pensione i dipendenti più anziani con qualche anno di anticipo al fine di favorire le assunzioni dei giovani e delle donne. Il ricambio generazionale deve essere pilotato a livello di azienda, non attraverso disposizioni generali che sfociano nell’immobilismo sociale.
Fonte: Libero Economia