Un falso prete a Napoli, 960 denunce a Torino, 140 a Cagliari, 29 indagati a Massa Carrara, 5 arresti in Lombardia: lo stillicidio delle truffe che hanno come oggetto il Reddito di cittadinanza erogato a chi non ne ha diritto unifica l’Italia, da Nord a Sud. Purtroppo. E forse dovrebbe suggerire quel programma di controlli a tappeto che facemmo in Inps per scoprire i falsi invalidi, e che mi sono già permesso di suggerire da queste colonne. Ora come allora ci sono i frenatori, in nome di un malinteso senso di solidarietà sociale, come se ci fossero delle truffe di serie A e di serie B.
I 20 miliardi – poco più o poco meno – erogati indistintamente e senza controlli per il Reddito di cittadinanza non hanno cancellato la povertà e hanno finito per drogare il mercato del lavoro. E questo è il secondo grande problema connesso a questa misura preziosa per i veri indigenti, devastante se elargita come sussidio universale.
Da un paio d’anni, di questa stagione, esplode la denuncia sulla difficoltà di reperire lavoratori stagionali. Il conto del 2022 è stato fissato in 350mila posti non occupati. A poco valgono, credo, le obiezioni sulle basse remunerazioni. Al netto delle patologie del lavoro in nero – che deve essere perseguito e denunciato – i redditi sono quelli collegati ai contratti collettivi nazionali. Delle due l’una: o il Reddito di cittadinanza è stato fissato a un livello eccessivo, rispetto alla contrattazione del lavoro, o le parti sociali nella loro libertà contrattuale dovranno aggiornare i minimi.
Ma nel frattempo è evidente che quando la manna piove dal cielo senza controllo è difficile trovare chi la rifiuti in cambio di un lavoro poco o tanto oneroso. Il circolo vizioso che si è determinato finisce anche per rimettere sotto la lente dell’attenzione collettiva la qualità degli attori sul mercato del lavoro.
I Centri per l’impiego (Cpi) sono le strutture pubbliche coordinate dalle Regioni o dalle Province autonome che “favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e promuovono interventi di politica attiva del lavoro” si legge sul sito dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le Politiche attive del Lavoro, che dovrebbe coordinare e razionalizzare la visione territoriale dei Cpi “L’Anpal nasce con lo scopo di accentrare a livello nazionale le competenze in materia di politiche del lavoro. Il problema però – scrive Francesco Seghezzi di Anpal – è che non bastava il Jobs Act per fare questo, occorreva un esito positivo della riforma costituzionale che lo stesso governo stava portando avanti. Esito che si è rivelato negativo dopo il referendum del dicembre 2016 e che ha lasciato Anpal, e con essa le politiche attive del lavoro, in mezzo al guado. Si tratta quindi di uno stallo che ci accompagna ormai da quattro anni e che si sintetizza in una agenzia nazionale che non ha le competenze per esercitare pienamente il suo ruolo”.
Se già qualcuno molto autorevole ha suggerito di abolire l’Anpal, vista l’incapacità di attuare la sua “mission”, forse sarebbe il caso di abolire anche i Centri per l’impiego.
Una struttura che intermedia meno del 2% dei rapporti di lavoro e che si vede sfuggire l’incrocio tra domanda e offerta per 350mila posti forse non ha più ragione di esistere. C’è chi sarà pronto a stracciarsi le vesti sulla “privatizzazione” del mercato del lavoro, ma quando il pubblico fallisce occorre ammetterlo e soprattutto non far pagare alla collettività le sue inefficienze. Da troppi anni si ascoltano le lamentazioni sull’inesistenza delle politiche attive per il lavoro, in Italia. E da troppi anni si certificano distorsioni che fanno male alle imprese e alle famiglie oneste.
Fonte: Libero Economia