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La Roma dei 15 comuni moltiplica spese e sprechi

La Roma dei 15 comuni moltiplica spese e sprechi

Charles de Gaulle sbottò: “Come si può pensare di governare un Paese con 246 tipi di formaggio?”. Il centralismo francese, lo Stato forte ha sempre esercitato la sua capacità dirigista anche contro un territorio frammentato per storie, tradizioni e culture. In Italia – che a formaggi non è molto da meno dei francesi – ha finito quasi sempre per prevalere il decentramento, la frammentazione al potere. Rispondendo alla domanda retorica di de Gaulle con una resa incondizionata ai formaggi.

Non ci sarebbe da stupirsi quindi se il processo di scomposizione amministrativa proseguisse, come sembra procedere nella politica della Giunta Gualtieri a Roma. La “città dei 15 minuti” – nobile aspirazione di efficienza per l’esperienza dei cittadini – è stata però fraintesa con la città divisa in 15 micro Comuni. Gualtieri sembra intenzionato a trasferire ai 15 Municipi la possibilità di bandire gare e di definire contratti di servizio in piena autonomia rispetto a Roma Capitale. Ma allora, Roma Capitale che ci sta a fare?

Allora perché non piegarsi al modello ambrosiano? Il Comune di Roma, per estensione è più o meno pari al territorio della Provincia di Milano che comprende 134 Comuni. I 15 Municipi romani potrebbero anche essere pochi. Perché non innescare un processo di frantumazione formale? In verità il “verbo” del decentramento aveva cominciato ad avere detrattori istituzionali. Almeno negli ultimi dieci anni, a torto o a ragione, imbracciando la spending review alle autonomie amministrative sono state tagliate le unghie. In modo anche brutale, come sa l’Anci. I Comuni italiani sono ormai scesi, per numero, sotto la soglia di 8000, e molto si è fatto per concentrare alcune attività amministrative in capo a Consorzi di Comuni per ottimizzare spese e risorse.

E’ la logica delle centrali uniche degli acquisti che si è imposta, almeno come intenzione, per superare le procedure degli acquisti frammentati, per razionalizzare i processi di acquisizione di beni e servizi, per risparmiare sulla spesa attraverso gare d’appalto uniche, in grado di ridurre il rischio di inquinamento e di patologia corruttiva. Il dietrofront manifestato nella Capitale non dovrebbe lasciarci indifferenti. Riesumare il decentramento “anni Settanta” è innanzitutto insostenibile. La lotta agli sprechi è incompatibile con la proliferazione dei centri di spesa.

La “città dei 15 minuti” è un obiettivo condivisibile nel programma di Gualtieri per Roma, ma non si persegue frantumando i percorsi decisionali. L’erogazione di un buon servizio, facilmente accessibile, non dipende dal luogo in cui si decide la spesa, ma dal modo in cui la si controlla e si sottopone a verifica, evitando sprechi e intermediazioni inutili.

Che senso ha indurre i localismi a farsi meno spavaldi, e nello stesso tempo guidare contromano – contro tendenza – per fomentare la loro vocazione alla parcellizzazione? L’incoerenza istituzionale è uno fattori distintivi della storia del Paese. L’incapacità di fare sistema nel Paese si traduce nella scelta di moltiplicare i paesi.

La tradizione cattolica – l’Italia dei campanili – si è quasi perfettamente sovrapposta alla storia civica e civile dei municipi. Per secoli. E quando lo Stato centrale si è imposto, per fare l’unità del Paese, il decentramento è stato il verbo comune della sinistra comunista – ora piddina – e della prassi democristiana nell’Italia repubblicana. Il decentramento è il figlio bastardo del federalismo, che è stato storicamente sconfitto a favore di un centralismo intimidito dalla responsabilità dell’efficienza, più che dai valori del localismo.

Fonte: Libero Economia