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Le assunzioni ripartono, le politiche attive ancora no

L’ho detto e continuo a esserne convinto: i Centri per l’impiego dovrebbero essere “assorbiti” nell’Inps. Giuseppe De Rita distingueva due tipi di manager pubblici: quelli che vogliono sommare e acquisire nuove competenze nelle proprie amministrazioni, e quelli che preferiscono tagliare, articolare, moltiplicare gli enti. L’Inps così com’è distribuisce oltre 300 diverse prestazioni di welfare ai cittadini del Paese. Aggiungere altro sarebbe indigesto? Se la macchina amministrativa funziona, non c’è mai il problema del “troppo”. Anzi, si creano vantaggi assoluti nella gestione e nei controlli. E nell’ottimizzazione immediata delle funzioni.

Non pretendo di avere ragione. Ma certamente hanno torto coloro che difendono l’attuale organizzazione dei Centri per l’impiego. Solo il 2-3% della nuova occupazione transita da loro. Un colpo di grazia è stato affibbiato, attribuendo ai Centri la gestione dell’operazione fallimentare del reddito di cittadinanza in cambio dell’assunzione degli improbabili “navigator”. Di più: che il reddito di cittadinanza venga rubricato tra le politiche attive del lavoro, aggiunge al danno la beffa.

Quanti dei quasi tre milioni di percettori (distribuiti su 1,3 milioni di nuclei familiari) del reddito di cittadinanza abbia ricevuto un’offerta di lavoro non è dato saperlo. Quando lo sapremo avremo la conferma di quello che si legge e si racconta in questi giorni: chi ha raggiunto il “reddito di cittadinanza” si guarda bene dal cercare un lavoro. Anzi, pare proprio schivarlo. Per una politica attiva del lavoro non è un buon risultato.

Ma tutti ci ricordano che anche la riforma delle politiche attive del lavoro e dei centri per l’impiego è inserita nel Pnrr. Impugnato il binocolo, siamo invitati a guardare al 2026. D’accordo, c’è l’occasione per mettere mano a tutta l’architettura istituzionale del Paese. Quindi, palla lunga e correre.

Nel presente? In attesa delle riforme che vediamo distintamente con il binocolo, oggi che cosa si fa? Ovviamente il blocco dei licenziamenti. Essere l’unico Paese ad avere adottato un simile provvedimento, non depone a nostro favore. Osteggiato da molti, a parole, ma ancora resistente per i prossimi mesi, il blocco dei licenziamenti attrae l’attenzione dei politici che “contano” e dei media che li rappresentano. Ma solo per discuterne, drogando il mercato del lavoro, senza mettere mano agli interventi possibili, subito. Come ha scritto Marco Bentivogli, il blocco temporaneo dei licenziamenti (insieme alla pioggia di risorse sotto forma di Cassa integrazione Covid) avrebbe avuto un senso – al limite – se si fosse utilizzato il tempo per organizzare politiche attive efficaci, non per aspettare il 2026. “Le persone che hanno fatto cassa integrazione da febbraio 2020 sanno bene che in fondo al tunnel resteranno senza lavoro” (sempre Bentivogli). Che sia a fine luglio o a fine ottobre, resta il fatto che saranno licenziate.

Avrà vinto l’ideologia? Forse. Certamente avranno perso un milione di famiglie. Avranno perso i lavoratori che saranno sempre più lontani dalla nuova occupazione che comunque si sta manifestando, dopo il buio del 2020. L’ultimo bollettino Excelsior conferma che sono oltre 560mila le opportunità di lavoro offerte dalle imprese a giugno che salgono a quasi 1,3 milioni avendo come orizzonte previsionale l’intero trimestre giugno-agosto. 

Le previsioni sul recupero dell’economia italiana e le tendenze positive in consolidamento dei mercati internazionali sono del resto confermate anche dalle valutazioni fornite dalle imprese che hanno risposto ai questionari Excelsior: il 19,8% prevede un aumento della produzione nel trimestre giugno-agosto rispetto al trimestre precedente a fronte del 13,1% che invece si attende una flessione, registrando quindi un saldo positivo pari a 6,7 punti percentuali

Si attesta però, complessivamente ancora al 31% la quota di assunzioni per cui le imprese dichiarano difficoltà di reperimento, in particolare nella ricerca di figure professionali più qualificate. Proprio quello cui dovrebbero provvedere le politiche attive per il lavoro, nel 2021, senza il binocolo puntato sul 2026.

Fonte: Libero Economia