Sorpresa: il Parlamento lavora, anche troppo. Nel corso della diciottesima legislatura, quella chiusa nell’ottobre dello scorso anno, sono state approvate 315 leggi. Un po’ meno delle 379 approvate in quella precedente, ma bisogna tenere conto della chiusura anticipata (sei mesi in meno di attività parlamentare). Più di una legge al giorno.
Peccato che si tratti di un lavoro di cattiva qualità. Il giudizio in proposito è conclamato. Il giudice emerito della Corte costituzionale, Sabino Cassese, non risparmia – e non da oggi – critiche roventi. Un’abitudine inveterata ai rimandi ad altre leggi, articolati-monstre, l’inserimento di misure rubricate “bis”, “ter” e “quater” perché infilate all’ultimo momento senza alcun coordinamento, perfino l’uso di un italiano troppo spesso scadente, che Cassese ha definito addirittura l’”antilingua”.
Non è solo una questione di stile. Il punto è che le nuove leggi non sono neanche in grado di camminare da sole. La percentuale di autoapplicabilità è crollata: solo una legge su tre è sufficiente a sé stessa. “Le 315 leggi approvate nella scorsa legislatura hanno previsto l’adozione di 2.271 provvedimenti attuativi (al netto dei decreti del Ministro dell’economia di natura meramente contabile). Si tratta di un numero ingente che qualifica i provvedimenti attuativi come un momento significativo del processo normativo italiano”: la nota è dell’ultimo Rapporto sulla Legislazione curato dall’Osservatorio della Camera dei deputati.
Una quantità di norme da soffocare qualunque cittadino, qualunque impresa, qualunque soggetto in cerca del diritto positivo. È quindi verosimile la stima complessiva (prodotta dalla Cgia di Mestre) delle norme prodotte (e vigenti) nel nostro Paese: in Italia vi sono circa 160 mila norme, di cui poco più di 71 mila approvate a livello nazionale e 89 mila dalle Regioni e dagli Enti locali. Un groviglio legislativo che è 10 volte superiore al numero complessivo – 15.500 – di leggi presenti in Francia (7.000), in Germania (5.500) e nel Regno Unito (3.000).
C’è da credere a questa cattiva abitudine anche per esperienza diretta. Durante la mia presidenza all’Inps mi capitò sovente di dover immaginare iter normativi per rassicurare percorsi amministrativi che – in assenza dell’attesa norma dedicata – avrebbero potuto incagliarsi nel timore della firma.
Questa sovraproduzione normativa ha ingessato il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Nell’anno precedente alla pandemia da Covid, afferma la Cgia, l’espletamento delle procedure amministrative ha sottratto al sistema delle imprese italiane 550 ore di lavoro, che equivalgono a un costo complessivo pari a 103 miliardi, di cui 80 sulle spalle delle Pmi e 23 su quelle delle grandi imprese.
Sepolto sotto questa montagna di carte il Paese – la sua economia, l’amministrazione della giustizia, la vita civile a ogni livello e grado – sopravvive a fatica. La parola semplificazione – brandita da tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi decenni – resta al più un’aspirazione.
La Corte costituzionale indicò al legislatore penale “l’obbligo di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e della intellegibilità dei termini impiegati”. Ma la stessa esigenza “di rispetto di standard minimi di intellegibilità del significato delle proposizioni normative, e, conseguentemente, di ragionevole prevedibilità della loro applicazione” sussiste anche rispetto alle norme che regolano la generalità dei rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini. Una situazione di deterioramento della qualità della legislazione può comportare contenziosi, situazioni di conflitto e, quindi, sfiducia nelle istituzioni. Non c’è modo di cambiare?
Fonte: Libero Economia