Erano stati proposti come protesta contro la mancata riforma delle pensioni. Tre sabati di maggio: domani 6 maggio a Bologna, poi sabato 13 a Milano e sabato 20 a Napoli. Ora sono diventati l’occasione per contestare il nuovo Decreto Lavoro e per “sostenere le richieste unitarie avanzate da Cgil, Cisl e Uil e dalle categorie – come si legge in un comunicato sindacale – nei confronti del Governo e del sistema delle imprese al fine di ottenere un cambiamento delle politiche industriali, economiche, sociali e occupazionali, e concreti risultati” su diversi temi, dalla sicurezza sul lavoro alle pensioni, passando per il fisco e i salari. Una protesta per sostenere una “piattaforma” di richieste – dal taglio più robusto del cuneo fiscale all’aumento della spesa pubblica per la sanità, per l’istruzione e la non autosufficienza; dal rinnovo dei contratti del pubblico impiego all’aumento della spesa pensionistica – che potrebbe valere dai 60 ai 100 miliardi di euro. Un impegno che varrebbe un terzo o la metà dell’intero tesoretto del Pnrr, a fronte di un margine di manovra che non può superare i 20 miliardi.
A differenza dei partiti – anche quelli tradizionali della Prima Repubblica – il sindacato non dovrebbe essere abilitato a spararla grossa. Ne va della sua credibilità negoziale e della sua qualità rappresentativa. Eppure, sembra che nell’attuale panorama politico – in senso lato – tutti possano dire tutto, senza preoccuparsi di dimostrare la sostenibilità (parola abusata e dimenticata) delle proprie richieste.
In campagna elettorale siamo abituati a vedere compilato il libro dei sogni, senza riferimento alle risorse disponibili al risveglio. Ma che le organizzazioni sindacali accettino uno scollamento così sensibile dalla realtà non è buon segno. Non si tratta, almeno in questa sede, di valutare la qualità dell’iniziativa di Governo, definita dal Decreto Lavoro. Ma è utile verificare l’autorevolezza di chi la contesta.
Le bugie dei politici sono quasi universalmente accettate. Dovremo fare altrettanto con le parole di chi si propone di rappresentare i lavoratori (anche se sappiamo che ormai rappresentano per lo più i pensionati)? Che senso ha chiedere pensioni più ricche, mentre si chiede un’uscita anticipata dal lavoro? Una delle due è una richiesta insensata.
Il prezioso e irrinunciabile ruolo delle organizzazioni sindacali non è in discussione, ci mancherebbe. E non solo perché sancito e difeso dalla Carta costituzionale nell’articolo 39, benché a oggi inattuato nella sua parte di vigilanza sulla “registrazione” delle organizzazioni e sul controllo del peso reale, e proporzionale, degli iscritti. Ma i sindacalisti di oggi sembrano inadeguati a confrontarsi con i “giganti” del passato. Senza evocare Giuseppe Di Vittorio o Giulio Pastore, basterebbe rammentare Lama, Carniti, Trentin, per far percepire – senza offesa per nessuno – la distanza con gli attuali leader. Si dirà che la questione somiglia a quella che riguarda la caratura dei politici. Vero. Ma a maggior ragione chi rappresenta i lavoratori dovrebbe assicurare – se non il genio della visione e degli ideali – una dose di onesto pragmatismo, che sembra latitare.
C’è un Paese reale che è cambiato e sta cambiando a una velocità che somiglia a quella della transizione tecnologica. Il mondo del lavoro è uno di quei pezzi di realtà che muta con un’accelerazione maggiore. Ed è curioso ascoltare il borbottio di chi crede che il Governo abbia violato il sacro riposo del primo maggio per varare il Decreto Lavoro, dimenticando le migliaia di lavoratori – negli alberghi, nei ristoranti, negli ospedali, nei negozi, nelle forze dell’ordine – che fortunatamente hanno potuto lavorare nel giorno di festa. Con sacrificio, sì, ma per aiutare il turismo, la sicurezza, la salute degli italiani e di chi l’Italia frequenta con soddisfazione.
Fonte: Libero Economia