Solo pochi anni fa a qualcuno era sembrato che la pensione anticipata fosse la panacea per accelerare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Anche nel pubblico impiego. In questi giorni scopriamo che la seniority è stata riscoperta come un valore, al punto da riservare il 10% delle nuove assunzioni nella Pa a pensionati o pensionandi. Solo i cretini non cambiano idea. E solo la retorica dei giovani è peggio della rottamazione dei meno giovani. Ma resta il fatto che, forse soprattutto nella Pubblica Amministrazione, vantiamo primati di cui non vantarci, come l’età media più alta dei dipendenti pubblici: 52 anni, 56 per i dirigenti. “Per un paese che vuole fare la riforma digitale è un problema” sosteneva Giulia Bongiorno, quando era ministro della funzione pubblica. Uno dei punti deboli dell’attuale pubblica amministrazione – sosteneva – è appunto l’età di chi vi lavora: “Lo si risolve solo con concorsi regolari aperti ai giovani. Io punto a fare un concorso ogni anno con criteri ben precisi. Assumere tanto per assumere non funziona”.
Ci ha provato lei, prima e dopo ci si è applicato Renato Brunetta, ma la questione resta lì, quasi ferma al palo. E intanto, con regolarità, qualcuno ci ricorda che la nostra burocrazia è inefficiente (ci mettono al ventitreesimo posto tra i 27 Paesi Ue: peggio di noi solo Romania, Portogallo, Bulgaria e Grecia) e costa tanto. Secondo gli ultimi calcoli forniti dalla Cgia di Mestre la burocrazia italiana costa 225 miliardi all’anno alle famiglie e alle imprese.
Una somma che vale più o meno il doppio dell’evasione fiscale stimata, o che basterebbe per coprire due anni di costi della Sanità pubblica. L’abbiamo detto altre volte, sarebbe sbagliato caricare di questo peso la burocrazia tout court. Gran parte dei problemi sta in una produzione di norme scritte male e sicuramente eccessive per numero. Forse non a caso la “malaburocrazia” in Italia si accompagna a quella sorta di “malagiustizia” che per dirla con Sabino Cassese “non gode della fiducia della collettività, anzi appare come la funzione pubblica meno efficace”.
Malaburocrazia e malagiustizia restano figlie di quella debolezza politica che ha segnato gli ultimi decenni del Paese. E della intramontabile forza delle corporazioni, che – spiacerà a qualcuno sentirlo dire – coincide con l’inossidabile ruolo delle organizzazioni sindacali (nella Pa) e associative in senso lato (nella magistratura). A dispetto della fluidità sociale il nostro Paese sembra non sapersi affrancare da quei corpi intermedi che hanno assunto un ruolo di rappresentanza a prescindere dalla loro effettiva rappresentatività. Per una burocrazia più efficiente e meno costosa – oltre che un Parlamento più capace di legiferare bene e in fretta – serve una capacità di riforma nei rapporti e nelle relazioni. Finché il cittadino non viene posto al centro delle esigenze la Pa resterà un potere separato, affidato a segreteria sindacali e di partito. Fino a quando per ottenere un passaporto ci vogliono da sei a otto mesi – magari esibendo su richiesta le ragioni di una urgenza che coincide solo con il diritto all’espatrio – il problema non sono la qualità delle risorse umane applicate, ma l’organizzazione del lavoro. Ahimé affidata sempre a una concertazione inutile e dannosa.
Una certa conoscenza della Pubblica Amministrazione non mi manca. E devo dire che la resistenza al cambiamento che ho visto nei grandi enti pubblici è quasi sempre determinata dalla conservazione dei poteri di rappresentanza sindacale e di partito. Scardinare queste abitudini – per scalare classifiche e migliorare i costi – farebbe dell’Italia un Paese più moderno ed efficiente. Con qualche potentato in meno, ma con tanta qualità in più al servizio di cittadini e imprese.
Fonte: Libero Economia