Lo spoils system è una pratica nata negli Stati Uniti, già nell’Ottocento, “importata” in Italia più di un secolo dopo, codificata con la legge n.145 del 15 luglio 2002 (corretta poi nel 2006). Entro 90 giorni dalla nomina del nuovo Governo (la regola vale anche per l’insediamento delle nuove amministrazioni di Regioni e Comuni) si dichiarano decaduti tutti gli incarichi di alta e media dirigenza nella Pubblica Amministrazione (la regola vale per il segretario comunale fino al direttore generale del Ministero). A tale disposizione si aggiunge quella secondo cui, all’atto del giuramento del Ministro, tutte le assegnazioni di personale, ivi compresi gli incarichi anche di livello dirigenziale e le consulenze e i contratti, anche a termine, conferiti nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione “decadono automaticamente ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro”.
La ragione è semplice e “ragionevole”: si può governare solo contando sulla fiducia dei propri collaboratori più stretti e più decisivi. La norma italiana è più morbida di quella d’oltreoceano. Diversamente da quanto succede negli Stati Uniti, il meccanismo coinvolge, di regola, dirigenti professionali di ruolo e non comporta la perdita del rapporto di lavoro ma solo quella del temporaneo incarico in corso (per essere destinati ad altra funzione, laddove non confermati). Insomma, nessuno perde il lavoro, ma solo l’incarico.
Anche se non sono in gioco la retribuzione e il posto, capita spesso di vedere – a ogni cambio di Governo – una sorta di transumanza ideale e ideologica, tra “civil servant” cui accade di convertirsi al pensiero e alla parte politica opposta a quella per cui si è prestato servizio fino al giorno prima.
Trasformismo? Né più né meno di quello che si vede in chi fa politica. Come cambiano collocazione gli eletti in Parlamento (o gli aspiranti) così cambiano colore le casacche di tanti dirigenti pubblici. Per loro vale sempre la lucida affermazione che ascoltai dal massimo dirigente di un ente previdenziale: “Ogni ora dedicata al lavoro è sottratta alla carriera”. Lucida e cinica lezione di vita, che certificava – almeno in chi me lo argomentava – la irreparabile divergenza tra merito e carriera, mettendo la seconda sotto le ali di altri criteri che hanno a che fare solo con la fidelizzazione.
Sarebbe utile riproporre in questi frangenti la distinzione che un autorevole parlamentare – oggi di nuovo ministro – ebbe a proporre nel corso di una riunione dell’Aspen Institute, qualche anno fa: la lealtà è un valore che non può sovrapporsi a quello della fedeltà. La lealtà è una caratteristica del collaboratore capace, la fedeltà è l’offerta (spesso temporanea e quasi sempre remunerata, anche se non in denaro) dell’incapace che aspira al cerchio magico (o al carro del vincitore).
In attesa di vedere gli effetti dello spoils system generato dal nuovo Governo Meloni – e dei conseguenti cambi di casacca nei vertici della Pa – sarebbe forse utile suggerire l’introduzione di criteri di nomina che possano premiare la lealtà invece della fedeltà. I nuovi fedeli sono sempre disponibili e in gran numero, i veri leali sono merce più rara.
I criteri di nomina dei vertici della Pubblica Amministrazione dovrebbero avere a che fare con la competenza, oltre che con la fiducia. Competenza verificabile con curricula e documentate performance. Tanto più in un periodo in cui la parola “merito” – mai abbastanza ribadita – compare anche nella nuova denominazione di un Dicastero: il Ministero dell’Istruzione ha visto aggiungere alla sua descrizione proprio quel Merito che dovrebbe essere stella polare non solo per le giovani generazioni, ma anche per quella dei loro genitori.
Fonte: Libero Economia