La riforma Fornero, e il futuro delle pensioni, tornano a occupare l’orizzonte politico del Paese. Al di là delle proposte e delle ricette – anche il Governo dimissionario ci ha messo del suo anticipando l’indicizzazione a ottobre, con costi non banali per la spesa pubblica – non è mai inutile ripetere che il futuro delle pensioni è legato alla crescita del Paese. Affermazione vera per tutte le misure di protezione sociale – è la ricchezza privata, diretta o indiretta, generata per crescita o per garanzia assicurativa, a dare la misura del welfare del Paese – ma in particolare è vero per le pensioni.
La crescita di un Paese si misura in termini di reddito e di Pil – voler sottrarre il futuro della previdenza al futuro del Pil è ideologia sciocca – e in termini di risorse umane: molto dipende dal numero di nascite, dalla durata e dalla qualità della vita (lavorativa e non solo), dal reddito, oltre che dalla qualità della formazione umana e professionale.
La riforma Fornero non deve essere vista come un totem da adorare o da abbattere. Ma certamente deve essere preservato quel principio che era alla base del coraggioso intervento condotto dal Governo Monti, ma in gran parte anticipato, nella sostanza l’anno prima, dai provvedimenti di Tremonti e Sacconi che agganciarono le prestazioni all’aspettativa di vita.
Ho conosciuto Elsa Fornero qualche mese prima che diventasse ministro, all’Università di Torino, invitato (e onorato per l’invito) a tenere ai suoi studenti una “lectio” sulla previdenza in Italia. Dopo pochi mesi, Mario Monti la chiamò al Governo. Fu il quarto ministro del Lavoro – e non l’ultimo – con cui ebbi l’occasione di collaborare da presidente dell’Inps. Nonostante la vulgata non le fui affatto nemico, condivisi la riforma che mise in sicurezza i conti della previdenza (e della finanza pubblica) italiana, generando risparmi potenziali per circa 80 miliardi. Come noto ci divise la stima sui cosiddetti “esodati”. Dall’Inps le informazioni furono puntuali, per descrivere il numero – tutt’altro che esiguo – di coloro che sarebbero caduti nella faglia del terremoto riformatore. Nella sua responsabilità la ministra fu draconiana, nonostante le lacrime esibite: con una metafora eccessiva parlò della necessità di “amputare”. Ricordo che disse così: «Bisognava amputare in fretta la gamba malata con rischio cancrena, in questi casi non si chiede ai parenti cosa fare».
Le proporzioni del taglio forse sono state eccessive – e lì iniziarono i distinguo – ma l’indirizzo era inevitabile. Bisognava agganciare il futuro della previdenza alle condizioni economiche del Paese, alla sua crescita oltre che alla longevità dei lavoratori in quiescenza.
Allora la professoressa Fornero chiese le dimissioni mie e del mio direttore generale accusando l’Inps di aver sovrastimato l’impatto dei tagli. Con l’icasticità dei giullari Roberto Benigni – fra i tanti – disse la sua in quel pomeriggio ad alta tensione, quando si scoprì che il Governo aveva ricevuto tutte le carte necessarie per sapere il vero numero degli esodati: “Sono qui nel Salone dei Cinquecento secondo l’Inps, secondo la Fornero Salone dei 50” commentò Benigni dal Salone dei Cinquecento di Firenze subito dopo aver ricevuto dall’allora sindaco Matteo Renzi la cittadinanza onoraria.
I numeri fanno la differenza? Quasi sempre. Solo l’inflazione produrrà un costo di circa 30 miliardi di euro (in due anni) nella “bolletta delle pensioni”. E questo, al netto delle proposte sulla flessibilità in uscita. Non serve sempre una riforma per cambiare le pensioni a ogni legislatura. Serve un Paese libero e capace di generare ricchezza privata, serve un Pil in grado di crescere.
Fonte: Libero Economia