A marzo ripartirà il confronto sul futuro delle pensioni. La legge di bilancio 2022 ha soltanto allontanato la palla, destinando l’anno in corso a una transizione – l’ennesima – tra una riforma riformata (e un po’ deturpata, con la quota 100 per mitigare la “Fornero”) e una nuova riforma da costruire, come sempre tra scalini, scaloni e salvaguardie.
L’incertezza continua a essere l’unica certezza sia per chi si avvicina alla pensione, e non sa con quali regole ci andrà, sia per chi guarda alla previdenza con gli occhi di un giovane di trenta o quarant’anni, con un lavoro discontinuo, magari non ben retribuito.
Ma c’è un’altra incrollabile certezza, che il Governo ha voluto ribadire proponendo al Parlamento la Legge di bilancio per quest’anno: di pensione discuteremo innanzitutto con le tre organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl, Uil, ancora previste insieme, nonostante lo strappo dello sciopero generale del 16 dicembre (senza la Cisl).
Sarà un’altra tappa surreale di questo confronto che qualche mese fa era stato idealizzato come il tavolo di una nuova concertazione (sull’esempio del patto di Ciampi del 1993). Quale concertazione è possibile quando un terzo abbondante della rappresentanza sindacale si è disallineata? A prescindere da chi abbia torto o ragione è difficile parlare oggi del sindacato al singolare, ma occorrerebbe ammettere che siamo di fronte a una pluralità di posizioni, per lo più politiche, ma non nel senso invocato da Landini: “Diamo voce a chi sta male e a chi non vota”. Intestarsi la rappresentanza degli astenuti fa comodo a chi, facendo la conta dei propri tesserati – Cgil più Uil – non supera i 4 milioni di unità (tra i lavoratori attivi vuol dire più o meno il 15%).
Ma il vero nodo del problema è perché le organizzazioni sindacali debbano essere un interlocutore privilegiato delle politiche previdenziali proposte dal Governo e assunte dal Parlamento. Quota 100 è stata una sciocchezza, costosa, ma politicamente se l’è intestata un partito che oggi giustamente viene criticato per il suo errore. E potrebbe pagare dazio nel giudizio degli elettori. Gli errori e la demagogia del sindacato non sono mai sottoposti al giudizio delle urne.
C’è un problema serio di metodo democratico. E c’è un problema ancor più serio di futuro per il Paese. Il dibattito suggerito dai sindacati – almeno quelli convocati a Palazzo Chigi – non si è mai lanciato ad affrontare le questioni serie che stanno sullo sfondo di qualunque politica previdenziale: il lavoro, e la crisi demografica.
Nei primi 9 mesi del 2021 le nascite in Italia sono state 12.500 in meno rispetto allo stesso periodo del 2020, un calo quasi doppio rispetto a quanto osservato tra gennaio e settembre dell’anno precedente. Ancora un record negativo, dunque, per la natalità nel nostro Paese. È quanto emerge dal bollettino dell’Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente 2020”.
Di questo passo mancherà la base stessa per poter parlare di pensioni, perché verrà meno il minimo quantitativo di lavoratori per poter pagare le pensioni nel regime guidato dal sistema a ripartizione. Il sindacato – anzi, i sindacati – continua a guardare ai garantiti, magari a quelli un po’ meno garantiti, per portarli a un gradino superiore di garanzia, dimenticando tutti coloro che nemmeno riescono (né riusciranno) a sperare in un trattamento previdenziale purchessia.
Per certi versi è inevitabile che chi rappresenta i lavoratori attivi (e quelli già in pensione) abbia uno sguardo miope. Ai politici spetterebbe una capacità di visione molto più larga e lunga di quella di chi lotta per il presente. E nulla più del sistema previdenziale dovrebbe suggerire di pensare al futuro, ma non solo a quello della generazione in essere. Per affrontare la questione della previdenza ci vorrebbe uno statista, che secondo l’aforisma di Winston Churchill “è un politico che pensa alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni”.
Fonte: Espansione