Ci sono due questioni, diverse tra loro, che suggeriscono di rimettere la penna nel calamaio del Pnrr. La prima questione riguarda l’ennesima prova di partigianeria politica che contraddistingue il nostro Paese e la nostra politica. Oggi i Guelfi e i Ghibellini si contrappongono tra coloro che ritengono di veder sfumare la quarta (se non già la terza) rata dei fondi Ue vincolati al Pnrr, contro quelli che invece ostentano sicura fiducia nel completamento delle operazioni “burocratiche” finalizzate alla riscossione dei due super-assegni da 19 e 16 miliardi di euro.
Dovrebbe essere un interesse nazionale da condividere l’obiettivo di incassare le risorse finanziare per le casse dello Stato. Invece ecco gufate e accuse di tafazzismo – per riprendere un’espressione non squisitamente istituzionale della premier Meloni – che si rincorrono nei corridoi di Bruxelles e nei palazzi romani.
Difficile dare torto a chi sottolinea la complessità del disegno imbastito per richiedere i 191 miliardi per i progetti del Pnrr. Qualche colpa deve essere imputata al Governo Draghi per aver peccato di eccessiva leggerezza, consapevole com’era di aver avuto l’onere di compilare il Piano – “mission accomplie” il 30 aprile 2021 – ma non di doverlo gestire. Qualche colpa deve essere riconosciuta al Governo Meloni dove si ritrovano sostenitori di idee (e prassi) diverse nei confronti dell’Europa, non solo in relazione al Pnrr (si veda il tormentone del Mes).
Un grande Paese dovrebbe riconoscere le opportunità prima delle criticità. Da noi, accade regolarmente il contrario. La maggioranza bulgara del Governo Draghi e l’ampia maggioranza politica che sorregge il Governo Meloni avrebbero dovuto indurre una più alta condivisione, chiudendo gli occhi sugli errori degli uni e degli altri, in nome di un obiettivo comune: sfruttare un’occasione epocale per rimettere mano a riforme e opere che consentissero al nostro Paese di traguardare la transizione energetica, ecologica, digitale, che sole possono aprirci la porta del futuro.
E invece mentre si tesse una mediazione sfibrante con gli uffici Ue – è un dato di fatto che per richiesta di risorse e complessità connessa, il nostro Piano non ha confronti con quello di altri Paesi dell’Unione – ci si continua a rinfacciare le inadempienze.
Con buona pace di tutti è vero che gran parte delle gare bandite sono andate deserte perché il quadro macroeconomico in cui era stato scritto il Pnrr è parente alla lontana di quello attuale: inflazione galoppante, prezzi alle stelle, forniture difficili da reperire, al netto delle solite difficoltà italiane di mettere a terra progetti capaci di spendere le risorse a disposizione.
Ma c’è una seconda questione che il tormentone del Pnrr rivela anche ai più distratti: la spesa pubblica continua a galoppare a un ritmo inadeguato rispetto alla reale ricchezza del Paese. Il pagamento delle rate – la terza forse a settembre, la quarta forse a febbraio 2024, sempre che ci sia concessa – sembra vitale per i conti pubblici ordinari, prima ancora che per il finanziamento di opere e riforme strutturali. Un capitolo su tutti: le pensioni. La spesa previdenziale – che nulla ha a che vedere con Pnrr e sostenibilità ambientale – continua a crescere con ritmi insostenibili. Il fabbisogno di cassa sta evolvendo a ritmi del 17-18%.
Ma non è sano – anche se troppo frequente, ad ogni latitudine politica – immaginare di pagare la spesa corrente con le risorse finanziarie collegate a grandi progetti di trasformazione. Gli investimenti non possono essere ancora una volta piegati alle urgenze del conto corrente. Eppure, dal dibattito in corso – e dall’affanno con cui si attendono le rate da Bruxelles – si ha la conferma di una patologia incurabile.
Fonte: Libero Economia