Per mesi abbiamo temuto che l’Italia non sarebbe stata in grado nemmeno di scrivere il suo Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tra gli obiettivi (e i successi) del Governo Draghi c’è stato soprattutto questo: la consegna in tempo utile del Piano, entro il 30 aprile 2021. Poi sono ricominciate le ambasce. Quelle di sempre: l’incapacità di spendere le risorse disponibili. Anche a causa dall’irrisolta divisione del Paese tra un Nord con efficienza quasi pari a quella tedesca (a volte anche di più), e un Sud arretrato peggio della Grecia (ma della Grecia prima che riuscisse a recuperare molto del tempo perduto).
Abbiamo capito tutti che la possibilità di tradurre in opere i progetti finanziabili (sempre che riuscissimo a confermare il percorso richiesto da Bruxelles) dall’Europa con il Pnrr dipende in gran parte da sindaci e governatori: Comuni e Regioni sono lo snodo finale di quasi tutti i programmi contenuti nel “grande libro” della ripresa sperata. E abbiamo capito tutti che ci sono Comuni (e Regioni) virtuosi e Comuni (e Regioni) incapaci. Ancora Nord-Sud. La vecchia separazione italiana, che fatica a diventare Nazione anche dopo oltre 160 anni di dichiarata unità nazionale.
Un recente Rapporto dell’Università di Bari – per conto della Fondazione con il Sud – rimette il dito nella piaga. Oltre alla solita misurazione dei Fondi non spesi a livello regionale, il Rapporto ha cercato di individuare un “indice di efficienza” delle amministrazioni comunali (che si vedono destinatarie di circa 40 dei 190 miliardi del Pnrr) basato su rapporto tra dipendenti comunali e popolazione, variazione di personale amministrativo tra il 2019 e il 2008, titolo di studio ed età dei dipendenti. Tra i Comuni con l’indicatore peggiore – manco a dirlo – 16 sono del Sud, 5 delle Isole e 1 del Centro (Latina: che poi, con Frosinone, è il capoluogo di provincia più a sud del Lazio).
Il problema, secondo quanto riferisce il Rapporto, è che a Comuni con evidenti criticità siano stati affidati stanziamenti rilevanti. I 7 Comuni per i quali l’analisi fa emergere una “assoluta emergenza” sono Napoli, Brindisi, Taranto, Reggio Calabria, Catania, Messina e Trapani.
Troppo spesso si parla di carenza di risorse, ma ogni volta che si guarda con attenzione il vero problema sono le competenze disponibili. Di fronte a questa riconosciuta criticità – non la scopriamo oggi, le indagini la confermano solo nella sua drammaticità – che senso ha avuto polverizzare il Pnrr? Solo in Basilicata sono 1582 i progetti affidati ai Comuni all’interno del Pnrr. Dodici progetti per Comune, in media. Ha senso? Non sarebbe stato meglio immaginare una cinquantina di grandi opere di “interesse nazionale”? La dispersione delle risorse è manna che piove dal cielo a condizione che si sappia cosa farne.
I grandi obiettivi del Piano – innovazione e digitalizzazione, transizione ecologica ed energetica, infrastrutture, salute, istruzione e ricerca, inclusione e coesione sociale – potevano essere perseguiti forse con maggiore efficacia con una progettazione nazionale. Non voglio aprire il dibattito su centralizzazione e autonomia – è già in corso, e non da oggi, riacceso in modo differenziato dalle richieste di alcune Regioni del Nord – ma la grande trasformazione del Paese forse avrebbe avuto bisogno di grandi progetti.
Invece stiamo inseguendo tante misure “micro”, ormai funzionali però all’approvazione da parte della Commissione Ue delle tranche previste per il finanziamento del Pnrr. Potremmo esserci impiccati da soli alla prima corda disponibile, quella che da anni pende tra il Nord e il Sud del Paese, facendo finta che l’Italia, i suoi enti locali, le sue amministrazioni pubbliche siano senza differenze di efficienza e di risultati.
Fonte: Libero Economia