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Restano ancora in alto mare le politiche attive del lavoro

Restano ancora in alto mare le politiche attive del lavoro

Ora il problema rischia di essere il futuro dei navigator. Il paradosso è quello di non trovare una prospettiva di lavoro a coloro che erano stati ingaggiati per favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, nel pasticciato schema del reddito di cittadinanza, almeno nella sua parte inconcludente di politica attiva per il lavoro. Si sono susseguiti tavoli e incontri. Le politiche passive per il lavoro (sussidi, ristori, cassa integrazione, etc.) diventano le uniche prospettive per coloro che avrebbero dovuto diventare protagonisti di una nuova politica attiva per il lavoro.

All’orizzonte per tutti – non solo per i navigator – ricompare la richiesta massiccia di cassa integrazione. Dopo due anni di cig straordinaria per il Covid, sull’autunno – e forse anche sulla estate incipiente – incombe una nuova grave crisi occupazionale. La bolletta energetica diventa proibitiva per molte attività produttive, non solo per la vita domestica. I mercati internazionali si stanno facendo più difficili per via della perdurante guerra. Il lavoro per molte imprese, non solo Pmi, rischia di diventare un lusso.

La fiammata del Pil post-Covid aveva fatto sperare in una ripresa, anche occupazionale. Oggi ci ritroviamo solo più fragili, in un mercato del lavoro che è rimasto con le stesse debolezze di prima. Abbiamo assistito al fallimento dell’Anpal, che avrebbe dovuto sviluppare politiche attive per contrastare gli effetti della pandemia sui lavoratori, e invece non ha avanzato né progetti, né proposte. Le risorse non banali – più di 5 miliardi – previste dal Pnrr per la riforma del mercato del lavoro continuano a essere evocate, ma non utilizzate. Siamo ancora a un documento di “Proposta di linee guida per la riforma delle politiche attive del lavoro” che rimbalza tra la Conferenza delle Regioni e il Ministero del lavoro. L’ultima tappa interlocutoria è del 16 marzo.

Come ha scritto Massimo Ferlini, “la possibilità di compiere un salto di qualità direttamente dentro alla fase di crescita che sarà indotta dalla disponibilità dei fondi europei richiede una forte collaborazione fra la rete dei servizi pubblici e quella delle agenzie private per il lavoro. Serve per questo un’agenzia pubblica capace di gestire una governance complessa. Per poterla immaginare bisogna liberarsi dall’idea che pubblico significhi statale e che il ministero sia la sede dove elaborare i servizi del futuro”.

Eppure, tutto sembra restare come prima. Come sempre. Si aggravano solo le condizioni di contorno, la congiuntura passa da un’emergenza (sanitaria) a un’altra (bellica) aggravando le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Come ha ricordato in questi giorni Giuliano Cazzola, si aggrava il “mismatch”. E il segnale più vistoso di questo spreco di capitale umano risulta dal numero dei posti vacanti relativi alle ricerche di personale. In buona sostanza, sono posti di lavoro retribuiti, spesso a tempo indeterminato, che le imprese non riescono a coprire non trovando sul mercato personale adeguato se non addirittura disponibile. 

L’incremento delle posizioni vacanti si associa a un aumento significativo della quota di imprese che segnalano difficoltà nel reperimento della manodopera necessaria per lo svolgimento della propria attività. Problemi di questo tipo sono emersi nel corso del 2021 sia nei settori della manifattura – nei quali tale quota è salita dall’1,4% al 6,1% -, sia in quelli dei servizi di mercato, dove l’incidenza di tali segnalazioni è passata dal 3,2% al 12,8%. La tendenza all’aumento dei posti vacanti, unita a una crescente difficoltà nel reperire la manodopera ricercata, sembra segnalare, in un mercato del lavoro che nel 2021 ha registrato un tasso di disoccupazione medio del 9,5%, la presenza e il possibile aggravamento di fenomeni di mismatch tra domanda e offerta di lavoro.

A poco vale notare che il fenomeno del Great Resignation in Italia non ha ancora le dimensioni di molti grandi Paesi occidentali. Dimettersi presuppone avere un posto di lavoro. Da noi sono ancora troppi quelli vacanti.