Lunedì prossimo riecco il tavolo sulle pensioni. Si riapre il cantiere previdenza? In realtà non è mai stato chiuso, da anni. E quando il tema è sembrato archiviato e messo in sicurezza, si sono riaffacciate nuove emergenze. E forse è inevitabile: i grandi mutamenti cui è soggetto il nostro mondo non riguardano solo il clima e l’energia, ma tra i più clamorosi c’è sicuramente l’emergenza demografica. E questa non può non impattare sulla “fabbrica delle pensioni”, soprattutto quando le regole sono imposte dal sistema previdenziale a ripartizione.
Tutto cambia: si vive più a lungo, si lavora con carriere più discontinue, si accumulano contributi meno omogenei, si contano retribuzioni poco accelerate, si fanno meno figli e quindi si potrà fare conto su meno lavoratori e quindi meno risorse da ripartire.
Eppure, si convocano sempre gli stessi tavoli, non per verificare il rischio delle pensioni future, ma per ragionare sulle uscite anticipate dal lavoro; e con gli stesi convitati, le stesse rappresentanze. Nulla contro le ennesime riedizioni degli incontri alla sala verde di Palazzo Chigi. Ci mancherebbe, ma mentre tutto cambia è normale che a parlarne siano gli stessi soggetti che ormai hanno meno rappresentatività e quindi meno autorevolezza per decidere del futuro delle persone e delle generazioni in attesa di prestazioni previdenziali?
La questione non è facile, purtroppo. E in Italia non abbiamo assistito alle contrapposizioni violente, viste in Francia per una proposta di riforma previdenziale che è persino meno severa di quella confezionata nel 2011 dal Governo Monti, con una maggioranza così larga, che solo quella del Governo Draghi ha potuto eguagliare. E poi diciamolo, la vituperata riforma Fornero tra salvaguardie degli esodati e successivi sistemi di quote è stata in gran parte disinnescata.
L’innalzamento dell’età anagrafica di uscita (da 67 anni in poi) non si è tradotta nella media reale dell’uscita dal lavoro. Secondo l’Ocse nel 2020, l’età media di uscita dal mercato del lavoro in Italia è stata di 61,8 anni, a fronte di un’età media di quiescenza che in Europa sarebbe di 64,3 anni per gli uomini e di 63,5 anni per le donne. In Francia addirittura 64,5 anni sia per uomini che per donne. In Germania 65,7 anni.
Il problema vero non sembra essere l’età. In Italia cerchiamo di aggiustare tutto con i complessi sistemi delle quote: peccato che “quota 41”, l’obiettivo indicato da molti, avrebbe un costo di 4,3 miliardi solo per il primo anno. Che andrebbero ad aggiungersi ai 318 miliardi che il Def indica come costo complessivo delle pensioni nel 2023. E allora si tende a riproporre la “quota 103” (che aggiunge ai 41 di contribuzione un minimo di età, 62 anni).
Alchimie comprensibili, ma di brevissimo respiro. I nodi restano due. Il primo: non c’è futuro previdenziale senza una previdenza complementare efficace. Peccato che per avviare concretamente il secondo pilastro servirebbe una flessibilità di risorse che sono in gran parte già impegnate nel primo pilastro. E una propensione al risparmio previdenziale che non è ancora abbastanza precoce. I giovani sono un problema, sia come fruitori delle future prestazioni, sia come attivi risparmiatori di oggi. Il secondo problema, più radicale è la crisi demografica. E non c’è quota che tenga. Rischia di non esserci più un’adeguata base contributiva per il sistema a ripartizione.
E al tavolo di lunedì torneranno a sedersi i rappresentanti di lavoratori assai lontani dai Millennials e tanto più dalla generazione Z; in verità si tratta di rappresentanti per lo più di pensionati (sappiamo che gli iscritti più numerosi delle organizzazioni sindacali sono ormai i lavoratori in quiescenza) che poco hanno da dire sul futuro, avendo già riscosso un presente assai favorevole.
Fonte: Libero Economia