Go to the top

Riformare il Titolo V con la Super-maggioranza del Governo Draghi

Riformare il Titolo V con la super-maggioranza del Governo Draghi

È da vent’anni che la Costituzione italiana “riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica”. I Comuni, le Città metropolitane, le Province e le Regioni sono enti “esponenziali” delle popolazioni residenti in un determinato territorio e tenuti a farsi carico dei loro bisogni. Secondo il principio di sussidiarietà “l’azione di governo si svolge a livello inferiore e quanto più vicino ai cittadini, salvo il potere di sostituzione del livello di governo immediatamente superiore in caso di impossibilità o di inadempimento del livello di governo inferiore”.

Un principio figlio di un federalismo tardivo, almeno in Italia – verrebbe da riandare a Carlo Cattaneo, piuttosto che a Gianfranco Miglio, tantomeno a Umberto Bossi – che la riforma del Titolo V sembrava aver faticosamente conquistato alla cultura politica e giuridica del Paese.

Niente di tutto questo. Anzi. Con la riforma del 2001, approvata con referendum popolare, si è innescato uno dei processi più spinosi di conflittualità tra Istituzioni. Già nel 2002, appena un anno dopo l’approvazione del nuovo capitolo costituzionale, si contavano più di cento ricorsi nel contenzioso Stato-Regioni. A tutt’oggi se ne sono inanellati oltre 1800. L’ultimo e recentissimo esempio è quello della legge della Valle d’Aosta sulle sovrapposizioni di competenze sanitarie ed epidemiologiche, sulla quale la Consulta si è pronunciata in via cautelare nei giorni scorsi contro la Regione (ne ha scritto anche il professor Sabino Cassese, evidenziando anche la indiretta sconfitta del Governo Conte che aveva avanzato il ricorso).

Quell’impugnativa proposta dal Governo era una delle 105 presentate lo scorso anno davanti ai giudici costituzionali. Un numero non troppo diverso dai ricorsi del 2019 (117). Dunque, il termometro della Corte continua a misurare un’alta conflittualità centro-periferia. Semmai, sarebbe da segnalare il fatto che nel 2020 la contrapposizione si è ulteriormente sbilanciata dalla parte dello Stato: da Roma, infatti, sono partite 95 impugnative contro le 10 presentate delle Regioni.

Benché sia soprattutto il contenzioso davanti alla Consulta che misura la conflittualità innescata dal Titolo V, anche le cause presentate in questi mesi ai Tar danno il segno della contrapposizione tra Stato e Regioni. I giudici amministrativi sono, infatti, dovuti intervenire per sbrogliare – sarebbe più corretto dire per sospendere, perché finora si è trattato soprattutto di decisioni cautelari – questioni di competenze concorrenti: scuola e sanità in primo luogo. Temi che si ritrovano anche nei ricorsi presentati dai privati cittadini (per esempio, comitati di genitori), come è stato per le pronunce dei Tar di Emilia Romagna, Lombardia e Puglia dei giorni scorsi sul rientro a scuola. Anche questi segnali del caos che regna sotto il Titolo V.

Si litiga su tutto, dalla formazione al turismo, dalla scuola alla sanità. Possibile andare avanti così? I Paesi che hanno una consolidata struttura federale – dagli Stati Uniti alla Germania – non sviluppano una simile litigiosità. Colpa della norma italiana poco chiara? Forse. A poco è valsa l’idea di Matteo Renzi di riformare il tema con un altro referendum, bocciato alle urne nel 2016; e a poco è servito il referendum sull’autonomia differenziata per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che è rimasto lettera morta.

I numeri di cui dispone la maggioranza parlamentare che sostiene il Governo Draghi potrebbero indurre a prendere sul serio la possibilità di correggere la norma con legge costituzionale senza dover ricorrere poi a referendum confermativo. Non per sfiducia nei confronti del popolo. Ma la confusione regna sovrana nell’opinione pubblica. Un recente sondaggio condotto da Noto Sondaggi per conto del Sole-24 Ore indica che solo il 14% degli italiani sa che il Titolo V della Costituzione attribuisce competenza esclusiva allo Stato sulle decisioni per i livelli essenziali di assistenza, mentre la tutela della salute è competenza concorrente. E quando non c’è accordo a decidere sono i giudici costituzionali o quelli amministrativi. Anche la considerazione delle Regioni è diversa. Il 48% dei cittadini ritiene che le Regioni non siano istituzioni vicine ai cittadini e ai loro bisogni reali, con picchi al Centro, al Sud. Al contrario, frutto probabilmente di lunghe battaglie sul federalismo e della valutazione lusinghiera sugli ultimi governatori, il giudizio più che positivo sulle Regioni (70%) arriva solo dai residenti nel Nord Est della penisola, in particolare in Veneto ed Emilia Romagna.

Per quanto riguarda le responsabilità degli attuali problemi della sanità italiana, il 40% le attribuisce all’eccezionalità dell’epidemia, il 33% allo Stato e il 21% alle Regioni. 

La questione è seria. Per assicurare certezza di diritto e per evitare perdite di tempo e di risorse servirebbe una chiara distinzione di competenze sulle materie concorrenti e sulle attribuzioni certe di potere. Il Paese ha bisogno di essere governato, non di ritrovarsi campo di battaglia per litigi e conflitti. La super-maggioranza oggi c’è. Potremmo approfittarne.