Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ci ha messo subito una bella pietra sopra. Eppure, sulle pensioni il nuovo Governo è destinato a giocare un pezzo del suo futuro e della sua credibilità. Di promesse ne sono state fatte molte, prima del voto. In verità non solo dai partiti in lizza. Anche il Governo uscente, e ancora in carica, ha fatto più di una promessa. E ha messo nero su bianco nel decreto Aiuti bis che da questo mese di ottobre sarebbe stato anticipato l’aumento previsto dalla rivalutazione degli assegni (limitatamente a quelli inferiori a 2700 euro mensili). L’adeguamento avrebbe dovuto entrare in vigore il prossimo gennaio. Un anticipo che costerà due-tre miliardi di spesa aggiuntiva. Poca cosa di fronte ai 297,4 miliardi di spesa previdenziale complessiva indicata dalla Nota di aggiornamento al Def (Nadef) per l’anno in corso. Ancora meno di fronte a quello che sarà nel 2025: 350 miliardi di previsione. E, si badi bene, la cifra non contabilizza le promesse: pensioni minime a 1000 euro, quota 41, Ape sociale, Opzione donna rifinanziata.
Destra e sinistra, ma anche i sindacati confederali, stanno coltivando sulle pensioni un’attesa che rischia di andare delusa. Non solo per il richiamo di Carlo Bonomi, che ha parlato dei prepensionamenti come di una strada impercorribile. E ha ragione. Peccato che le parti sociali, prima ancora dei partiti in vista delle elezioni, hanno sempre guardato alle pensioni come a un improprio ammortizzatore sociale.
La spesa previdenziale ci distingue – in negativo – da tutti i Paesi Ocse. Vale circa il 16% del Pil. Rischia di superare il 17%. Un livello insostenibile, anche se nel computo restano prestazioni assistenziali che altri Paesi hanno l’abitudine di scorporare. La premier in pectore ha ammesso di credere al ruolo dei corpi intermedi. Speriamo che non sia la premessa per il solito assalto alla diligenza in vista della nuova e dolorosa manovra finanziaria di fine anno.
Oltre che fare di conto, al nuovo ministro del Lavoro toccherà affrontare una piccola (o grande) rivoluzione culturale, che metta fine all’abitudine (di sindacati e datori di lavoro) di far pagare alla collettività (e alle nuove generazioni) gli effetti di molte crisi che vengono da molto più lontano, rispetto all’esplosione di quella energetica che tanto ci angustia.
Forse sarebbe meglio tornare a parlare di un ministro del Welfare. Non tanto per questioni nominalistiche, quanto per sottolineare la necessità di indicare un perimetro più ampio in cui si deve giocare il futuro delle imprese, dei lavoratori e dei giovani, soprattutto. Le politiche passive per il lavoro sono state una specialità (facile) della politica degli ultimi decenni. Tutti a tamponare falle e a emettere un conto che si rivelava sempre come una cambiale, che ha finito per impegnare il futuro delle nuove generazioni.
Sarebbe il caso – alla vigilia della nomina del nuovo titolare di via Veneto – di fare una riflessione di sistema sulla previdenza, sulla sua natura e sulla sua necessità di poter contare su lavoro e lavoratori, quindi su imprese e demografia. Il nuovo Welfare del Paese ha bisogno di nuova ricchezza da generare e (solo dopo) da redistribuire. E ha bisogno di scelte. Le risorse devono essere indirizzate su chi ne ha veramente bisogno e ne ha veramente diritto.
E quando si tratta di scelte c’è bisogno di politici che siano uomini di Stato, capaci di vedere lontano, senza pretendere di piegare l’Amministrazione alle esigenze delle ideologie e delle clientele. Tanti anni in Inps mi hanno fatto sentire con mano l’insistenza della politica nel suggerire distrazioni dai controlli o dalle verifiche sulle prestazioni erogate. C’è chi ha saputo resistere a queste pressioni e chi invece ha deciso di piegarsi.
Fonte: Libero Economia