Per ogni italiano sotto i 15 anni ce ne sono due (o poco meno) sopra i 65. L’Istat nel 2022 ha fotografato l’indice di vecchiaia a 186,7. La crisi demografica viene fotografata da molti punti di vista, così come le sue conseguenze per l’economia e per il welfare del Paese. Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. Quindi tra poco più di 25 anni, in Italia avremo un lavoratore per ogni assistito. Un rapporto insostenibile per ogni sistema economico che abbia investito nella protezione sociale. Non ci saranno più risorse sufficienti per il welfare pubblico.
In una recente intervista al Sole-24 Ore Gian Carlo Blangiardo ha ripetuto quello che ha detto per anni durante il suo mandato di presidente dell’Istat: tra vent’anni il Pil italiano perderà circa 350 miliardi di euro (il 18% in meno di quello attuale). Uno degli effetti del calo della popolazione di circa 3 milioni di individui, e una diminuzione della quota di popolazione attiva (la potenziale forza lavoro nella fascia 15-64) dal 65,3% al 54,6 per cento. Ma già oggi, tra il 2019 e il 2022 il numero di persone convenzionalmente definite in età da lavoro (tra i 15 e i 64 anni) è già diminuito di quasi 800mila unità, come ha ricordato nella sua Relazione annuale il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.
Di fronte a questa prospettiva – irresolubile anche con le più generose programmazioni di immigrazione – risulta incomprensibile l’ottusa insistenza delle organizzazioni sindacali (e di non poca parte della rappresentanza politica) a richiedere nuovi scivoli pensionistici. Semplicemente tra vent’anni (e magari anche meno) non ci saranno più risorse né per le pensioni, né per l’assistenza sociale così come la conosciamo oggi.
Le odierne Cassandre, che prevedono facilmente la mancata tenuta dei conti pubblici, rischiano di fare la fine della figlia di Priamo: inascoltata. La scorsa settimana abbiamo ricordato del principio di (impossibile, ormai) concertazione del 1993, ci vorrebbe oggi uno spirito analogo solo con la consapevolezza che siamo dinnanzi a una trasformazione epocale della società italiana ed europea. Ma in Italia va peggio che nella media dei Paesi Ue. Secondo Eurostat, nel 2021 è il Paese con l’età mediana più alta, pari a 47,6 anni (contro i 44 dell’Europa).
Dovremmo poter concertare politiche di contrasto all’inverno demografico e conseguenti politiche di welfare pubblico, che non inseguano ideologie del secolo scorso, ma le tendenze documentate del futuro prossimo. Dobbiamo fare i conti anche con un approccio culturale che si è consolidato nel tempo: lo sberleffo rivolto a coloro che facevano coincidere la grandezza di un Paese con la “quantità” dei suoi abitanti. Il dividendo demografico è tornato drammaticamente all’ordine del giorno. Lo vediamo negli orizzonti internazionali: l’India è diventato il Paese più popolato del mondo e non a caso sembra destinato a sottrarre alla Cina (ormai con una popolazione che sta invecchiando) il ruolo di economia trainante del pianeta.
Come ha ricordato Alessandro Rosina “dalla preoccupazione per la crescita eccessiva la questione demografica è, insomma, destinata a spostarsi sempre di più verso le implicazioni del declino e, soprattutto, degli inediti squilibri nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni (a sfavore di queste ultime)”. La popolazione è la materia prima dello sviluppo, ma la formazione – quindi l’accesso al lavoro e all’istruzione – è la condizione della sua trasformazione in crescita sociale ed economica. Per l’Italia e per chi la rappresenta (sindacati e partiti) deve cambiare qualcosa, altrimenti dovremmo svendere il nostro Paese, come si fa con le abitazioni a un euro nei borghi spopolati d’Italia.
Fonte: Libero Economia