Go to the top

Senza rivoluzione liberale il Paese ha mostrato il peggio

Il Pil non sarà come lo avevamo sperato. L’illusione di una piccola locomotiva italiana si è infranta in un’estate caldissima, ma turisticamente meno buona di quanto avevamo pensato. Bene gli stranieri, male gli italiani, a dimostrazione di quanto aveva presagito il Rapporto annuale della Banca d’Italia per il 2022, anno in cui le famiglie italiane hanno eroso per quasi 700 miliardi la ricchezza messa da parte. Allo stesso tempo è calata la propensione al risparmio, passando dal 13,2% del 2021 all’8,1% dello scorso anno. Il minimo dal 2008. 

L’avevamo temuto da un po’ di tempo in qua. La nostra generazione sarà la prima – dopo decenni – a consegnare ai figli una società più povera, con consumi ridotti, un indebitamento crescente e una ricchezza media inferiore.

Si dirà: la guerra in Ucraina, l’aumento dei tassi, un’inflazione galoppante; ma per l’Italia i fattori sono di lungo periodo: l’indebitamento pubblico costante (e crescente), una produttività stagnante, una denatalità incipiente, e redditi incapaci di crescere ai ritmi degli altri Paesi europei. La bomba pensioni era stata disinnescata con la riforma Fornero, una decina d’anni fa, ma i successivi assalti al tesoretto recuperato (tra le salvaguardie e le quote) hanno rilanciato sui più giovani tutto il debito previdenziale.

Più poveri, più indebitati e in un Paese dove la “cosa pubblica” – a lungo saccheggiata e solo in parte redistribuita – è ormai ridotta a spoglia da possedere per pochi (sempre meno) ormai privi anche di quella forma di decenza – ipocrisia? – che è pur sempre “l’omaggio che il vizio rende alla virtù”.  In questa condizione la transizione pubblico-privato sembra una delle poche vie d’uscita. Il pubblico, nel passato anche non troppo remoto, era sottoposto a un’area di rispetto e di onorabilità. Il pubblico impiego ha rappresentato per anni un luogo di servizio vero, innescando uno scambio virtuoso tra il posto fisso (con tutta la sua retorica) e un decoro formale di chi si sentiva parte di qualcosa che non era più estraneo: lo Stato, la Pubblica Amministrazione, fino a tutte le società pubbliche esercenti un servizio, compreso chi ne era concessionario. L’usciere del Ministero aveva una divisa decorosa, il bigliettaio sull’autobus indossava un cappello non gualcito per tenere sotto controllo i capelli e il sudore, il taxista lucidava con cura la 600 multipla verde-nera.

Mitizzare il passato non va bene? Allora pensiamo al presente (e al futuro). Le non molte aree di miglioramento nei servizi di pubblica utilità si sono mostrate in coincidenza di più o meno esplicite liberalizzazioni. Pensiamo ai treni, almeno nelle tratte lunghe. Tra Frecciarossa e Italo si è accesa una positiva concorrenza che consente di fare viaggi di una qualità diversa da quelli immortalati in qualche film in bianco e nero e scolpiti nella memoria dei molti non più giovani. Pensiamo alla telefonia, voce o dati. La competizione tra gestori e il controllo di una autorità del mercato consente oggi di comunicare sempre (anche troppo?) e ovunque, aprendo nuovi spazi di relazione e di connettività personale e sociale. A costi assai contenuti.

È una lezione che dovremmo importare in molti altri comparti della vita e dei servizi. Dove resistono monopoli pubblici le cose vanno peggio. Il mercato – vigilato, non selvaggio – è stato l’unico motore di miglioramento in un orizzonte di progressivo depauperamento di risorse e di collante sociale. La società liquida ha allentato anche i rapporti istituzionali; ci vogliono nuove motivazioni e nuova partecipazione. Una vera rivoluzione liberale è quella che non è mai avvenuta nel nostro Paese, facendolo scivolare sul piano inclinato di un socialismo consociativo e assistenzialista che ha prodotto tutto il peggio delle economie a propulsione pubblica.

Fonte: Libero Economia