Per Charles de Gaulle il problema era poter governare un Paese con oltre 250 tipi diversi di formaggio. La battuta gli è stata attribuita – anche se qualcuno ha dubitato della sua vera paternità – per indicare la difficoltà di mettere insieme particolarismi quasi irriducibili. In Italia abbiamo sempre risposto con i campanili e i campanilismi. Persino più numerosi dei formaggi francesi. La Francia ha sempre avuto uno Stato forte. Noi nemmeno quello. E lo stiamo toccando con mano di nuovo con la realizzazione dei progetti del Pnrr.
Per mesi abbiamo temuto che l’Italia non sarebbe stata in grado nemmeno di scrivere il suo Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tra gli obiettivi (e i successi) del Governo Draghi c’è stato soprattutto questo: la consegna in tempo utile del Piano, entro il 30 aprile 2021. Poi sono ricominciate le ambasce. Quelle di sempre: l’incapacità di spendere le risorse disponibili. Anche a causa dall’irrisolta divisione del Paese tra un Nord con efficienza quasi pari a quella tedesca (a volte anche di più), e un Sud arretrato peggio della Grecia (ma della Grecia prima che riuscisse a recuperare molto del tempo perduto).
Abbiamo capito tutti che la possibilità di tradurre in opere i progetti finanziabili (sempre che riuscissimo a confermare il percorso richiesto da Bruxelles) dall’Europa con il Pnrr dipende in gran parte da sindaci e governatori: Comuni e Regioni sono lo snodo finale di quasi tutti i programmi contenuti nel “grande libro” della ripresa sperata. E abbiamo capito tutti che ci sono Comuni (e Regioni) virtuosi e Comuni (e Regioni) incapaci. Ancora Nord-Sud.
Troppo spesso si parla di carenza di risorse, ma ogni volta che si guarda con attenzione il vero problema sono le competenze disponibili. Di fronte a questa riconosciuta criticità – non la scopriamo oggi, le indagini la confermano solo nella sua drammaticità – che senso ha avuto polverizzare il Pnrr? Solo in Basilicata – ma è giusto per fare un esempio – sono 1582 i progetti affidati ai Comuni all’interno del Pnrr. Dodici progetti per Comune, in media. Ha senso? Non sarebbe stato meglio immaginare una cinquantina di grandi opere di “interesse nazionale”? La dispersione delle risorse è manna che piove dal cielo a condizione che si sappia cosa farne.
Ci eravamo convinti che il vecchio ritornello – “non ci sono soldi” – potesse essere sostituito dalla musica dei fatti e dei contanti. Ma con il passare dei mesi l’ottimismo (della volontà?) è stato scalzato dal realismo (dell’abitudine?): le decine di miliardi contabilizzati per piccole e grandi opere continuano per lo più a restare sulla carta.
Risultato: la pioggia di denaro promessa con il Pnrr non arriva a destinazione, cioè non cambia la vita degli italiani. E le comunità locali, proprio quelle che ne avrebbero più bisogno, restano a bocca asciutta. I grandi obiettivi del Piano – innovazione e digitalizzazione, transizione ecologica ed energetica, infrastrutture, salute, istruzione e ricerca, inclusione e coesione sociale – potevano essere perseguiti forse con maggiore efficacia con una progettazione nazionale. Non voglio aprire il dibattito su centralizzazione e autonomia – è già in corso, e non da oggi, riacceso in modo differenziato dalle richieste di alcune Regioni del Nord – ma la grande trasformazione del Paese forse avrebbe avuto bisogno di grandi progetti. Non di uno spezzatino.
Invece stiamo inseguendo tante misure “micro”, ormai funzionali però all’approvazione da parte della Commissione Ue delle tranche previste per il finanziamento del Pnrr. Potremmo esserci impiccati da soli alla prima corda disponibile, quella che da anni pende tra il Nord e il Sud del Paese, facendo finta che l’Italia, i suoi enti locali, le sue amministrazioni pubbliche siano senza differenze di efficienza e di risultati.
Fonte: Espansione