Non è la prima volta che si legge di “fuga di cervelli” dall’Italia. Nei giorni scorsi l’argomento è stato ribadito attraverso i dati del Ministero dell’Università e dell’Istat. A partire, sono professionisti altamente formati e qualificati: medici, ingegneri, specialisti dell’informatica. E questa “fuga” – anche se sarebbe meglio parlare di mobilità, in uscita, ma pur sempre mobilità – inizia già durante gli studi. La ragione? I giovani laureati partono attratti dalle migliori opportunità offerte all’estero, “soprattutto in termini di retribuzioni e prospettive di carriera”, si legge nel rapporto di AlmaLaurea.
Si stima che i bravi professionisti italiani possano trovare remunerazioni fino al 50% più alte fuori dei confini nazionali. Ma non c’è nulla di cui sorprendersi. È vero che la media delle retribuzioni italiane è ferma al palo. È vero che in Italia si guadagna di meno, ma le spiegazioni sono chiare, anche se talvolta sottaciute.
Le basse retribuzioni sono un argomento ideale per le organizzazioni sindacali, per rilanciare – pro domo loro – una stagione di conflitti o di vertenze. Ma tassazione e contribuzione previdenziale sono due pesi che rendono già buona parte della ragione del gap italiano. E poi c’è la produttività. In Italia la produttività del lavoro è di gran lunga inferiore a quella dei maggiori Paesi industrializzati. All’estero si lavora di più, non solo in termini orari, ma certamente per intensità produttiva.
Chi ha la fortuna di avere un figlio che lavora all’estero è buon testimone di entrambi i fattori: migliori retribuzioni e maggiore impegno di lavoro. Il fine settimana non è quasi mai un momento per il relax, ma quasi sempre una estensione dell’impegno professionale. Non si finisce di lavorare alle 18, ma si continua anche fino alle 22. E questo è vero sia nelle attività a maggiore valore aggiunto, sia in quelle commerciali a minore apporto di competenza verticale.
Se i nostri giovani di talento scelgono l’estero è perché vedono maggiori spazi per inseguire la meritocrazia e l’opportunità per fare carriera. Se poi si aggiunge la sburocratizzazione assoluta nella stipula dei rapporti di lavoro e nella loro risoluzione, si completa il quadro di una fluidità del mercato del lavoro che aiuta le aziende a selezionare le migliori risorse e consente ai lavoratori di inseguire percorsi di crescita personale e professionale che in Italia sono spesso preclusi.
Insomma, il tema delle retribuzioni bloccate in Italia è uno degli effetti di una protezione sociale affidata al paternalismo statale e al corporativismo sindacale. I rapporti dell’Eurofound consegnano da anni un dato certo: solo il 35% delle aziende Italiane lega la retribuzione dei propri dipendenti a una valutazione delle performance individuali degli stessi, e, dato ancor più significativo, solo il 18% delle aziende prevede forme di retribuzione di produttività o di redditività. Il salario variabile da noi è una rarità. Le indagini di Adapt da anni rilevano che a fronte di un generale consenso dei datori di lavoro in merito ai sistemi di retribuzione variabile, la quale consente loro di legare i salari dei lavoratori allo specifico contesto aziendale, nonché a influenzarne la performance e la motivazione, ci sia invece una resistenza invalicabile dei rappresentanti dei lavoratori. Il sindacato ritiene che tali sistemi riducano la solidarietà e sottraggano dal controllo delle organizzazioni sindacali la stessa dinamica salariale.
La misurazione della produttività induce a un rapporto più diretto tra impresa e lavoratore, senza la mediazione dei soggetti della rappresentanza, o per lo meno riducendo il peso della rappresentanza collettiva nazionale. Se i lavoratori migliori lasciano l’Italia è forse anche perché il sistema complessivo che governa il mercato del lavoro è avvertito da noi troppo intermediato. Oltre che inefficiente.
Fonte: Libero Economia