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Smart working, in Italia una scorciatoia che ignora i bisogni dei cittadini-utenti

Steve Jobs considerava la mensa di Apple il luogo più creativo dell’azienda. L’incontro, lo scambio di idee in libertà, la condivisione di uno spazio e di un tempo comune era l’habitat ideale per far scaturire le soluzioni migliori ai problemi individuati. Poi in ufficio a produrre i risultati. Insomma, la fisicità era (e resta) insostituibile. Nei mesi in cui si è fatta molta retorica sullo smart working qualcuno ha ricordato l’aneddoto del fondatore di Apple. Dopo le necessità imposte dal Covid, e dopo la doverosa attenzione alla flessibilità dei lavoratori (se si può stare a casa, un giorno o due alla settimana, senza compromettere la produttività, ne beneficia sicuramente il work life balance), le grandi multinazionali americane hanno fatto una decisa retromarcia. In due anni si è passati dal 60% al 17% di lavoratori Usa in smart working.

A noi italiani piace invece surfare sulle novità, dimenticando gli obiettivi, cercando poi allegramente le scorciatoie che evitano di dare struttura e organizzazione al nostro lavoro. Lavorare vuol dire produrre beni o servizi che siano graditi ai consumatori (o utenti se preferite), nel rispetto delle esigenze di chi lavora, ma con l’obiettivo che è la soddisfazione del cliente, che paga il bene o il servizio.

Il concetto è chiaro nella buona e sana impresa italiana, che sa mediare tra i bisogni dei lavoratori e le esigenze dei consumatori (che poi sono sempre lavoratori che consumano…). La Pubblica Amministrazione, con la complicità delle organizzazioni sindacali, fa spesso confusione, anteponendo le richieste dei dipendenti (e di chi li rappresenta) alla soddisfazione dei cittadini-utenti.

In questo percorso della Pa si inserisce l’ultima decisione annunciata dal Comune di Roma, che ha prodotto l’entusiasmo della Cgil: più smart working per i dipendenti (non solo del Comune, ma per tutte le aziende che aderiranno al protocollo), per decongestionare il traffico nella Capitale e la pressione sul trasporto pubblico, allentando i disagi legati alle centinaia di cantieri aperti a Roma a due mesi e mezzo dall’avvio del Giubileo 2025. È la proposta avanzata dal sindaco Roberto Gualtieri, in qualità di commissario straordinario di governo per l’Anno Santo, alle organizzazioni datoriali e sindacali della città.

Una nota del Campidoglio informa che nelle prossime ore si lavorerà alla stesura di un accordo quadro, rinnovabile anche nei mesi successivi, per fissare il target del rafforzamento dello smart working (l’ipotesi è di almeno un giorno in più rispetto a quanto già previsto in ogni azienda), che sarà poi completato a livello di contrattazione aziendale. Per dare il “buon” esempio il Campidoglio ha definito un accordo con le sigle sindacali per almeno due giorni di smart working per tutto il personale che svolge mansioni che non richiedono la presenza fisica, estendibile a cinque giorni.

Qualche considerazione. La prima: la Pubblica Amministrazione dichiara di non saper programmare i propri lavori e chiede ai privati di alleggerire la richiesta di servizio. Una sconfitta che non dovrebbe essere esibita con orgoglio. Non pare che il Comune abbia deciso di ridurre l’addizionale nel periodo in cui ha aumentato i disagi dei cittadini – automobilisti e non solo, visto che i cantieri si ripercuotono su tutta la mobilità cittadina – mentre chiede che le aziende, anche quelle private, “prendano esempio” dal Campidoglio, lasciando a casa i propri dipendenti, in smart working.

La seconda: lo smart working viene inteso non come una nuova, possibile, integrativa forma di organizzazione del lavoro, ma come scorciatoia per far stare a casa più tempo i lavoratori; con grande disagio per chi lavora davvero (il lavoro da remoto è quasi sempre più oneroso e stressante di quello in presenza) e con soddisfazione per chi ne approfitta per fare altro.

La terza è tutta rivolta alla Pubblica Amministrazione: come e più di qualunque altra impresa privata, la Pa (nello specifico il Comune di Roma) dovrebbe preoccuparsi prima di tutto di soddisfare le esigenze dei suoi clienti-utenti, organizzando il lavoro dei propri dipendenti in modo da fornire servizi migliori, in meno tempo. La scelta annunciata per lo smart working “di massa” è invece rivolta a risolvere i problemi della Pa, della sua organizzazione: visto che non so organizzare i lavori pubblici, faccio stare a casa i miei dipendenti per alleggerire il traffico, ammettendo fra l’altro l’ennesima sconfitta sul fronte del trasporto pubblico locale, dichiarato di fatto insufficiente e inefficiente.

Se poi i servizi erogati – dalla carta di identità elettronica a una banale richiesta di Scia per un lavoro in casa – si fanno attendere, poco importa. L’importante è far stare a casa i propri dipendenti. E il sindacato, sempre più vocato alla difesa dei pensionati, esulta come se questo modo di fare smart working fosse una difesa dei lavoratori.

Una brutta pagina, per tutti. L’ennesima furbizia all’italiana che sceglie le scorciatoie invece che affrontare i problemi. Li aggira, non li risolve.

Fonte: Il Riformista