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Su concorrenza e mercato l’Italia ancora storce il naso

Non sono bastate le proteste dei cittadini. Nemmeno le denunce scandalizzate di molti turisti costretti a fare file chilometriche per aspettare un taxi. Non è bastato neanche il timido decreto Asset del Governo. Perché dovremmo pensare che la parola dell’Antitrust risolva il problema?

Resta l’incredibile connivenza che il mondo politico non riesce a sciogliere con una categoria che ha in concessione un servizio pubblico di trasporto urbano. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha richiamato le amministrazioni comunali di Milano, Roma e Napoli a dotarsi di un servizio taxi adeguato alle esigenze delle rispettive città. Cioè: più licenze. E tra Nord e Sud si scopre che – almeno per i taxi – ci sono poche differenze.

Qualche numero: a Roma ci sono poco più di 7800 licenze, cioè 2,8 licenze ogni mille abitanti. A Milano circa 4800 licenze: 3,5 ogni 1000 abitanti. A Napoli circa 2300 licenze, che vuol dire 2,6 licenze ogni mille abitanti. A Parigi? Il triplo di Roma, cioè circa 9 licenze ogni mille abitanti. A Londra ancora di più: 10,3 licenze di taxi ogni 1000 abitanti. Senza dimenticare che a Parigi, a Londra, così come a New York c’è una forsennata concorrenza: oltre alle licenze concesse dall’amministrazione locale, agiscono Uber e Lyft, con migliaia di auto in più. Da noi no. Uber è stato cacciato dalle nostre città come se rappresentasse una banda di infami, invece che solo operatori in concorrenza. Senza dimenticare che nelle grandi città internazionali c’è una rete di trasporti pubblici locali (di superficie e metropolitane) che Roma si sogna e che Napoli e Milano possono solo cercare di sfidare vista la piccola dimensione dei rispettivi territori comunali.

L’Antitrust, nella nota inviata alle amministrazioni comunali italiane, fa un esplicito riferimento a “superare questa grave situazione e aprire il mercato alla concorrenza”. Già, la concorrenza. C’è una idiosincrasia tutta italiana ad aprirsi al mercato. Eppure, nei mercati della telefonia o del trasporto ferroviario ad alta velocità, per fare due esempi, prezzi e tariffe sono diminuiti (e la qualità del servizio è cresciuta) grazie alla competizione tra gestori.

La concorrenza fa bene, soprattutto agli utenti. Possibile che si sbaglino in tutti gli altri Paesi e abbiamo ragione solo noi a custodire le riserve indiane delle auto bianche? Possibile che poche migliaia di cittadini riescano a tenere in ostaggio città intere, con residenti e turisti, senza che la rappresentanza politica che viene eletta dai cittadini riesca a scalfire i vantaggi di posizione garantiti ai taxisti?

Un’economia di mercato ha bisogno di concorrenza, anche e soprattutto nel settore dei servizi pubblici. E delle tariffe connesse. Anche in questo caso la mancanza di concorrenza si ritorce contro il portafoglio degli utenti. In testa alla classifica dei taxi più cari ci sono città medie: Ferrara, Taranto e Torino, nell’ordine. Il confronto tra tariffe non è cosa facile, ma i risultati non sono confortanti: A Roma si paga più che a Milano, sulle corse brevi, così come sulle corse lunghe.

Ma questo oggettivo costo del servizio – misurato da un report specifico dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art) – non si traduce in una adeguata qualità (le auto non sono sempre ben tenute, spesso addirittura sporche, e i taxisti non brillano per efficienza con i Pos quasi sempre fuori uso, bofonchiando parolacce a chi insiste a pagare con carte di credito o di debito), né in una coerente denuncia fiscale della categoria. Fare i conti in tasca degli altri non è bello, né facile. Ma è lecito scandalizzarsi perché un taxista a Roma dichiara di avere un reddito di poco più di mille euro al mese. A Milano solo poco di più. Vuol dire più o meno 30 euro al giorno. È credibile?

Fonte: Libero Economia