Dalla montagna potrebbe uscire il solito topolino, ma capace di fare più danni dei vantaggi che promette. Il “plus” della tanto evocata tassa sugli extraprofitti delle banche potrebbe tradursi in un gettito di 2 miliardi di euro. Tanto? Poco? Tutto è relativo. Sarebbe il 10% in più delle risorse per una manovra che dovesse attestarsi sui 20 miliardi di euro. Il “minus” sembra più consistente: anche perché sono più di uno.
Innanzitutto, l’Europa ci ha già fatto sapere che non gradisce. Poco male? Forse, ma complessivamente, in un orizzonte “collaborativo” con Bruxelles e Francoforte – come è stato scelto dal Governo Meloni anche su altre partite, migranti in testa – un po’ di sabbia in più negli ingranaggi potrebbe non essere buona cosa.
Sul fronte politico interno il provvedimento, fin dalla sua nascita – con quel nome bizzarro e poco sovranista, decreto “Asset” – ha finito per dividere non solo gli alleati di governo, ma persino i ministri nel Governo. Una norma che è sembrata per un po’ figlia di nessuno, finché la premier se n’è assunta la paternità (maternità, ops), anche dietro le assenze e i mugugni del suo ministro dell’Economia (e del suo ministro degli Esteri).
Nell’orizzonte economico e finanziario potrebbe essere ancora peggio. Piaccia o non piaccia agli antagonisti veri o di facciata del sistema capitalista che conosciamo, il sistema del credito – e Dio sa quanto bisogno di credito abbia per sua natura l’economia, specie quando si riaffacciano inflazione e crisi (occupazionale, energetica, demografica) – è e resta centrale per un Paese che non voglia farsi tentare dalle sirene sgangherate della decrescita felice. E il credito ha bisogno di banche. In Italia l’80% dei finanziamenti alle imprese transita dagli istituti di credito. Farseli nemici per un piatto di lenticchie – i 2 miliardi di cui sopra – è una scelta saggia e lungimirante?
La stretta creditizia riguarda tutti, famiglie e imprese. Calano i mutui immobiliari, il costo del denaro sul mercato supera l’8% e al credito al consumo schizza oltre il 13%. L’orizzonte non offre segni di rasserenamento: la pandemia (forse) è archiviata, ma la guerra in Ucraina continua con il suo strascico di sangue e di inflazione, di crisi produttive e di prezzi delle materie prime alle stelle. La crisi energetica è stata solo tamponata, non risolta.
A ogni decisione della Bce di alzare il costo del denaro – in un anno siamo passati dallo 0,5% al 4,5% – sentiamo dire, anche dai ministri in carica, che si tratta di un fatto gravissimo. Così come è gravissimo vedere tutto il nostro sistema produttivo ingessarsi. Avremmo bisogno di qualche altro superlativo assoluto per affrontare la proroga dei mutui-Covid, così come per favorire l’accesso al credito per le imprese (e le famiglie) in difficoltà finanziaria. La crisi del credito incide su molti più italiani – lavoratori di aziende in difficoltà e padri di famiglia – di quanto non incida la riduzione più o meno aspra della platea del reddito di cittadinanza. Eppure, il vecchio-nuovo Rdc e il salario minimo occupano da settimane l’attenzione dei media (e delle forze politiche) a scapito dei più urgenti problemi del sistema produttivo, senza il quale welfare e assistenza non avrebbero modo di essere.
Con il sistema bancario ci sarebbe bisogno di una collaborazione più ampia e sagace, invece che di contrapposizioni ideologiche e ossessionate dalla ricerca di un facile consenso.
Tocca al Governo tracciare una strada capace di convertire tutte le risorse del Paese – banche comprese, ovviamente – verso una crescita economica che è condizione di ogni redistribuzione. Non è con le briciole che si allarga la torta, tantomeno irritando i cuochi e le brigate di cucina. La “moral suasion” presuppone autorevolezza, prima che autorità.
Fonte: Libero Economia