C’è anche un problema di linguaggio. Se lo stesso incontro (con il Governo) è stato definito dalle rappresentanze sindacali “estremamente positivo” (Sbarra, Cisl) e “totalmente inutile” (Landini, Cgil) delle due l’una: o c’è una distorta percezione della realtà o una reale distorsione della percezione. Comunque qualcosa di poco rassicurante. Parliamo ancora di pensioni. E questo aggrava i problemi di linguaggio e di percezione della realtà.
Il linguaggio è vecchio, usato solo come segnaposto di idee vecchie. Purtroppo, temo che anche da parte del Governo ci sia una difficoltà ad ammettere che i problemi sono drammaticamente nuovi e che non si risolvono nascondendo la polvere sotto il tappeto, tanto la ritroveranno coloro che oggi lavorano nell’assoluta incertezza di poter avere la pensione.
Parliamo di pensione e di giovani. Ma di giovani in una vasta accezione, diciamo gli under 45. Cioè coloro che andranno in pensione – o dovrebbero andarci – non prima dei prossimi 15-20 anni. Come può sentirsi un giovane lavoratore di fronte al dibattito che sembra ruotare solo sulle quote, cioè sull’anticipazione della pensione per coloro che sono già sessantenni? Per loro, cioè per i Millennials o per la Generazione Z, al massimo una “pensione contributiva di garanzia”. Una promessa di qualcosa che somiglia a un reddito di cittadinanza post-datato.
Ha ragione Marco Leonardi quando scrive sul Foglio: “Se fossi giovane mi arrabbierei: continui a prorogare il favore delle quote per chi va in pensione anticipata oggi e poi mi fai il regalo di consolazione (se me lo fai!) di aggiustare il regime contributivo ben sapendo che è molto più penalizzante di quello di oggi”. Peccato che anche lui, quando ha occupato più o meno ininterrottamente la stanza dei bottoni (da Renzi a Draghi), non sia riuscito a tirar fuori altro che una instancabile concertazione con quei rappresentanti sindacali che oggi manifestano una inadeguatezza che emerge anche dal linguaggio.
Nessuno che abbia il coraggio di dire che inseguire il sistema delle quote vuol dire confermare una condizione di svantaggio incolmabile per chi oggi ha meno di 45 anni. E non è nemmeno vero che sia il sistema contributivo a condannare questi “giovani” lavoratori ad avere una prestazione previdenziale più magra. Il problema sono le diverse condizioni del mercato del lavoro: carriere discontinue e salari bassi. Senza mettere le mani – duramente – nelle regole del mercato del lavoro non se ne esce. Tanto più oggi che – finalmente – è emersa e conclamata quella emergenza demografica che aggiunge criticità a criticità.
Insistere sulle quote e sulla condanna del sistema contributivo temo sia fuorviante. Utile forse solo a chi fa politica, e quindi attento agli interessi di breve periodo della quota maggioritaria degli elettori. E non c’è dubbio – e cito ancora il pensiero di Leonardi – che oggi i giovani rappresentano l’anello debole del consenso, nonostante la retorica che li vede (a parole) protagonisti della narrazione del mainstream.
Senza lavoro non ci sarà pensione. E oggi aggiungiamo: senza lavoratori non ci saranno pensionati. Il lavoro non sembra mancare, se è vero che ci sono almeno un milione di opportunità non coperte. Mancano percorsi di formazione adeguati – e infatti fioriscono le Accademy aziendali – mancano semplificazioni normative che favoriscano l’alternanza scuola-lavoro o il semplice apprendistato. E invece ai soliti tavoli – con i soliti noti, che rappresentano più pensionati che lavoratori e più vecchi che giovani – si parla di quote e di uscite anticipate dal lavoro, magari rinfocolando una “guerra” generazionale di cui non si sente il bisogno. La “silver economy” (o la “longevity economy” come qualcuno preferisce indicarla) ha bisogno dei giovani che lavorano. Il patto generazionale si fa sul lavoro, non sulle uscite dal lavoro.
Fonte: Libero Economia