L’insistenza con cui ne ha parlato ci dovrebbe convincere che Mario Draghi voglia puntare molto su un nuovo sistema di supporto per la salute degli italiani. Nel suo intervento alla Camera lo ha detto chiaramente: “Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale”. Se la trincea degli ospedali in qualche modo ha tenuto è quella al di fuori che non ha retto all’onda d’urto della pandemia, per questo per il nuovo premier la “casa” dei pazienti deve diventare il “principale luogo di cura”. Una rivoluzione oggi possibile grazie alla “telemedicina” e all’”assistenza domiciliare integrata”.
Non si potrà parlare di post pandemia senza una riforma profonda del sistema sanitario che dovrebbe seguire tre direttrici: innanzitutto negli ospedali devono essere mantenuti stabilmente differenziati i percorsi Covid-19 e non Covid-19 per dare al sistema la possibilità di rispondere a tutte le altre malattie, per esempio le patologie croniche, così tanto trascurate nei mesi dell’emergenza. L’epidemia ha comportato la sospensione di oltre 12,5 milioni di esami diagnostici, 20,4 milioni di esami del sangue, quasi 14 milioni di visite specialistiche e oltre 600mila ricoveri (secondo i dati Cerms, Università Cattaneo).
In secondo luogo, dovremo ripensare il rapporto tra medici di medicina generale e il Sistema sanitario nazionale, potenziando anche la tecnologia dove serve. Infine, terzo punto: dobbiamo puntare sul rafforzamento della medicina territoriale che è il primo soccorso dei cittadini. A partire dal 2010, la sanità italiana è stata colpita da una seria operazione di spending review: in 3 anni sono stati tagliati oltre 3 miliardi di euro in contributi al Ssn. Successivamente, questa spesa ha ricominciato a crescere e oggi vale poco più di 115 miliardi di euro. Uno dei costi più bassi di tutta Europa. Un Sistema sanitario nazionale, che dopo tanti anni di definanziamento, domani potrebbe godere di nuove e importanti risorse – grazie al Recovery Plan – non potrà comunque fare a meno del contributo della sanità integrativa offerta dall’industria delle assicurazioni.
La copertura assicurativa – sul fronte della sanità integrativa – coinvolge ormai più di 13 milioni di cittadini, per lo più attraverso polizze collettive aziendali. Di questi il 46% è legato ai fondi sanitari integrativi. Seguono i fondi in autogestione e le casse professionali, rispettivamente con il 24% e il 16% degli aderenti. Infine, polizze individuali e mutue raggiungono solo il 12% e il 3% del bacino di utenza.
Proprio l’ultima versione del Recovery plan destina quasi metà dei 18 miliardi della Sanità – 7,5 miliardi di euro per l’esattezza – proprio al territorio e alle cure a casa. Si prevede infatti che entro il 2026 saranno realizzate 2.564 Case della Comunità nuove di zecca, una ogni 24.500 abitanti. L’obiettivo è assistere in questi nuovi spazi dove lavoreranno medici e infermieri in rete finalmente capillare 8 milioni di pazienti «cronici mono-patologici» e 5 milioni con più patologie. L’altra faccia della medaglia sono le cure direttamente a casa dei pazienti, a cui va 1 miliardo di euro che dovrà mettere le ali all’assistenza domiciliare integrata su cui oggi l’Italia è fanalino di coda in Europa. Il target? 500mila nuovi pazienti over 65 presi in carica. Ma per mandare a regime l’assistenza a casa si spingerà anche sulla telemedicina che secondo il Piano assisterà almeno 282.425 pazienti entro il 2026. Infine con 2 miliardi sono da costruire le «cure intermedie»: nasceranno 753 ospedali di comunità – 1 ogni 80mila abitanti – per assistere tutti quei pazienti per cui il ricovero in ospedale non è indicato ma che non possono neanche stare a casa.
Questi i numeri del Piano proposto dal Governo Conte bis. Bastano? La direttrice rivolta al territorio era chiara. Di certo dovrà essere altrettanto chiara la necessità – strutturale, programmatica – di quella integrazione tra sanità pubblica e sanità privata, che oggi talvolta sembra al massimo “sopportata”. Se ogni anno gli italiani spendono di tasca propria una cifra stimata in 40 miliardi, vuol dire che una qualche forma di integrazione (non foss’altro come taglia-code per l’attesa della diagnostica, o per l’odontoiatria, solo per fare due degli esempi di più frequente ricorso al privato) è inevitabile. E forse persino funzionale.
Non solo. Il sistema-salute (inteso come salute privata) in Italia contribuisce per il 10,7% al Pil ed occupa, considerando l’indotto, oltre 2,4 milioni di addetti, in attività ad alto tasso di innovazione e valore aggiunto. E la filiera della salute “privata” (manifattura, commercio e servizi sanitari privati) rappresenta da sola, rispetto all’economia del Paese, il 4,9% del fatturato, il 5,8% dell’occupazione (circa 910.000 persone) e il 7,1% delle esportazioni (oltre 28 miliardi di euro). Molto significativi sono anche i dati sulla spesa in ricerca e innovazione (circa 2,8 miliardi di euro in valore assoluto nel 2016, il 13% del totale degli investimenti in ricerca e innovazione in Italia). I numeri testimoniano che la filiera della salute, oltre a contribuire in modo determinante all’efficacia delle cure per i cittadini, rappresenta una delle principali aree di sviluppo dell’economia.