Circa tre mesi fa la Corte costituzionale ha definito illegittima una norma contenuta in un decreto legge del maggio 2021, ribadendo un orientamento consolidato di incostituzionalità dei cosiddetti “decreti omnibus”. Nello specifico la Corte ha cassato un articolo che era stato introdotto nel decreto legge in questione – varato dal Governo Draghi, emanato in tempo di Covid, il cosiddetto “Sostegni bis” – tramite emendamento parlamentare nel corso della conversione in legge del decreto.
La questione non è solo di natura giuridica. Ma ha un riflesso economico e politico evidente, almeno per due motivi. Il primo: l’incertezza della norma. Se dopo due anni dall’approvazione di una legge la Consulta interviene per azzerare un articolo di legge, questo introduce una friabilità evidente nel rapporto tra cittadini (e imprese) e Stato. Il secondo: la questione di illegittimità costituzionale dei decreti omnibus non è una novità, eppure il Parlamento (e i Governi) continuano a sfidare la Consulta.
Sono almeno dieci anni (dal 2012 in poi) che la Corte costituzionale censura questa illegittima modalità di legiferare. A più riprese anche in Capo dello Stato – sia Giorgio Napolitano, sia Sergio Mattarella – ha ribadito l’inopportunità di predisporre norme di legge con contenuti “disomogenei”, tanto più in relazione alla conversione in legge di decreti legge che dovrebbero essere “necessari” e “urgenti”, quindi mirati a una singola specifica fattispecie da regolare. Un esempio su tutti la cattiva abitudine del cosiddetto “milleproroghe” che continua imperterrito a impegnare Governi e Parlamenti di colori politici diversi da quasi vent’anni.
Eppure, nonostante le pronunce della Consulta e le reprimende del Capo dello Stato le leggi di conversione dei decreti legge omnibus vengono approvate e promulgate. C’è un problema istituzionale che diventa politico e che produce incertezza anche economica.
C’è un problema di credibilità istituzionale. L’eccezione di incostituzionalità è premessa quasi “automatica” per ogni verifica preliminare in un iter legislativo. Ed è ormai noto e consolidato il giudizio sui “decreti omnibus”. Perché continuare in questa prassi?
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la legge di conversione riveste i caratteri di una fonte «funzionalizzata e specializzata», volta alla stabilizzazione del decreto-legge, con la conseguenza che non può aprirsi ad oggetti eterogenei rispetto a quelli in esso presenti, ma può solo contenere disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico essenzialmente per evitare che il relativo iter procedimentale semplificato, previsto dai regolamenti parlamentari, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano il decreto-legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare.
Solo in questa legislatura nei processi di conversione in legge dei decreti legge cosiddetti “omnibus” emanati dal Governo sono stati introdotti oltre 1200 emendamenti (di cui più di mille approvati). Probabilmente c’è anche la “frustrazione” parlamentare che si è vista progressivamente sottratto il “potere legislativo”: meno del 15% delle leggi approvate negli ultimi dieci anni nasce dal Parlamento. L’85% è iniziativa del Governo, sempre più spesso con l’arma del decreto legge. Di conseguenza risulta abbastanza evidente come i margini di intervento per un parlamentare siano particolarmente esigui. La presentazione di emendamenti alle leggi di conversione quindi, per quanto impropria, rappresenta una delle poche vie che rimangono a deputati e senatori per intervenire nel processo legislativo su materie di proprio interesse. Gli oltre 1200 emendamenti nel percorso di conversione in legge sono la “vendetta” del parlamentare che non riesce più a produrre leggi?
Fonte: Libero Economia