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Un giovane su tre pronto a lasciare l’Italia

Se ne sono contati circa 600, e finalmente anche il Governo ha ritenuto di dire che è ora di smetterla: i “bonus” sono troppi, troppo complicati nell’elargizione dei benefici, e poco efficaci per aiutare il mercato del lavoro; soprattutto quello che intercetta i giovani lavoratori. Forse non a caso il Paese reale, non da oggi, viaggia in direzione diversa da quella tracciata da sindacalisti più rivolti alla pensione (propria e dei propri iscritti) che non alle politiche di inserimento dei giovani nelle imprese.

Già lo scorso mese di luglio un’indagine Ipsos, realizzata per la Fondazione Barletta, emise un verdetto esplicito: più di un giovane su tre (il 35%) è pronto a lasciare l’Italia per andare all’estero. Più di recente la Fondazione Nord Est ha sfornato dati incontrovertibili sulla nuova “fuga” all’estero di tanti giovani italiani: nel 2022 e nel 2023 quasi 100mila giovani italiani hanno lasciato il Paese, mentre solo poco più di 37mila sono rientrati. Nel medio periodo – i tredici anni che vanno dal 2011 al 2023 – più di mezzo milione di giovani italiani (550mila, per l’esattezza) hanno trasferito all’estero la loro residenza anagrafica. Secondo il report il dato reale è di tre volte superiore – quindi si arriva a 1,6 milioni di giovani italiani che hanno lasciato l’Italia – visto che molti che vanno all’estero non cambiano la residenza.

“Molti hanno cercato migliori prospettive di lavoro all’estero” aveva segnalato il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, già durante le sue Considerazioni finali a fine maggio: hanno lasciato il Paese “soprattutto i laureati, attratti da opportunità retributive e di carriera decisamente più favorevoli. L’esodo indebolisce la dotazione di capitale umano del nostro paese, tradizionalmente afflitto da bassi livelli di istruzione”.

Diciamolo una volta per tutte: è vero che all’estero le retribuzioni sono più alte, ma è enormemente più alta la produttività. Quindi dire che i giovani vanno all’estero per guadagnare di più è vero, ma sanno benissimo che ci sarà da lavorare molto di più. Senza le reti di protezione tirate nel mercato del lavoro italiano: nei Paesi anglosassoni, e non solo, il mercato del lavoro è più fluido, il licenziamento è una possibilità frequente, così come la possibilità di trovare nuova e diversa occupazione; le assenze non sono tollerate, lo straordinario è ordinario, le ferie non sono il totem al quale sacrificare tutto. La flessibilità è assoluta e la dedizione al lavoro e alla produttività sono il “vangelo”.

Eppure, i giovani italiani non si sottraggono a questa sfida. Anzi, ne sembrano attratti. Non si tratta solo dello spirito di internazionalizzazione che soffia nelle vele dei nostri under 35. C’è lo spirito della competizione, dove il merito non è una parola di moda, ma una condizione insindacabile misurata dal datore di lavoro.

Piangere per la “fuga” dei cervelli (o dei migliori lavoratori) è inutile, soprattutto se non si colgono alcuni segnali che contraddicono gli ultimi decenni di politiche per il lavoro. Tra “jobs act” e articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, tra causali per le assunzioni e procedure barocche per l’apprendistato i giovani italiani preferiscono la competizione. Vorrà dire qualcosa anche per chi vorrebbe rappresentarli? Sia le organizzazioni sindacali, sia i partiti politici – o quello che ne resta – sembrano intenti a una battaglia di retroguardia, rivolta a garantire diritti (per pochi) senza pretendere doveri (per molti).

Politici e sindacalisti – o almeno molti fra loro – inseguono un mondo che non c’è più e che non è nemmeno desiderato dai giovani italiani che quando si tratta di lavorare preferiscono lasciare il Bel Paese e sfidare il mercato del lavoro (anche un po’ spigoloso) nei Paesi dove la flessibilità ha preso il posto della garanzia.

Fonte: Espansione